L’animale è politico – di Agnese Pignataro

Articolo originariamente pubblicato sul sito del Veggie Pride italiano (veggiepride.it)

L’animale è politico

di Agnese Pignataro

Considerazioni sulla questione animale e sul Veggie Pride

Introduzione: gli animalisti «apolitici», quelli «politici», e il Veggie Pride

Una parte del movimento per l’abolizione dello sfruttamento degli animali non umani ritiene di non avere fini «politici» e di non praticare un’attività «politica». Un’altra rivendica invece un’impronta «politica»1 per il fatto di affermare una convergenza della liberazione dei non umani con la liberazione umana.2
Entrambe queste componenti, apparentemente opposte, si ricongiungono nella comune incapacità di pensare la questione animale come questione intrinsecamente politica, di vedere l’animale3 in sé come soggetto politico. Entrambe ritengono che la «politica» riguardi solo gli animali umani. Sia gli «apolitici» che i «politici» pensano che la loro attività sia politica solo nella misura in cui coinvolge problemi umani: l’evocazione strumentale dei famosi «argomenti indiretti» (come la fame-nel-mondo per giustificare il vegetarismo, o la non-scientificità-della-vivisezione per combattere la sperimentazione sugli animali non umani) da parte dei primi equivale, nella sostanza, alla teorizzazione da parte dei secondi di un dominio sugli animali non umani come una mera conseguenza addizionale, quasi epifenomenica, di conflitti umani (concreti conflitti di classe, per chi ispira al materialismo storico, o conflitto simbolico all’interno della coscienza umana, per chi si perde in direzioni idealiste ed esistenzialeggianti).
Era quasi scontato che una manifestazione come il Veggie Pride, che protesta esclusivamente contro il massacro dei non umani per l’alimentazione umana, fosse catalogata come manifestazione «non politica». Non sorprende neanche che il Veggie Pride venga criticato tanto dagli animalisti «apolitici» che da quelli «politici».
Gli «apolitici» rimproverano al Veggie Pride di non utilizzare tutti gli argomenti a disposizione per promuovere l’alimentazione vegetariana: nella loro ottica pragmatica, le questioni politiche umane intrecciate al consumo di prodotti animali rivestono il ruolo di semplici ma efficaci strumenti di persuasione, laddove un discorso che parli unicamente di (diritti, interessi etc. degli) animali non umani viene giudicato poco incisivo. Si ritiene che la società non debba essere invitata a prendere atto della gravità dello sfruttamento degli animali non umani, ma anzi debba essere incoraggiata a criticare lo stato delle cose secondo una scala di priorità in cui i non umani occupano sempre ed inesorabilmente l’ultimo posto4.
I «politici», invece, rimproverano al Veggie Pride di non prendere posizione contro il capitalismo. Per questo motivo, durante l’edizione parigina del 2008, un gruppo isolato di partecipanti ha tentato l’occupazione di due fast food, e in Italia, sempre nel 2008, alcuni militanti ecoanarchici hanno rifiutato a priori di prender parte alla manifestazione perché essa non prevedeva una tappa di contestazione di McDonald’s5.Questo tipo di atteggiamento va in direzione uguale e contraria rispetto al primo: contraria, perché l’incapacità di considerare lo sfruttamento dei non umani come una questione autonoma, e politica in sé, viene introiettata dagli stessi militanti, e non semplicemente destata ed incoraggiata nel pubblico; uguale, nel considerare che solo un discorso in cui all’oppressione degli animali non umani vengano giustapposte altre forme di oppressione (attraverso connessioni spiegate poco e male), possa essere considerato «politico».
Di fronte alla falsa alternativa rappresentata dai «politici» e dagli «apolitici», mi sembra importante affrontare la questione della politicità del Veggie Pride; per farlo, occorrerà parlare in prima battuta del concetto di politica e del suo rapporto con quella parte della realtà generalmente definita come «natura».

Cos’è la politica

Cosa intendiamo per «politico»? Comunemente, si ritiene che la sfera della politica comprenda tutto ciò che riguarda il vivere umano collettivo; più precisamente, tutto ciò che concerne la dimensione economico-sociale dei rapporti umani. Il sottinteso di questa definizione è che tale dimensione abbia nella realtà carattere unico, eccezionale: anche in un pensiero radicalmente monista6 in senso materialista, essa verrà interpretata come una modalità specifica del genere umano in cui la natura si mette in relazione con se stessa7.
Fanno eccezione coloro che i cosiddetti materialisti «dialettici» definiscono sprezzantemente «materialisti volgari» o «riduzionisti»: questi ritengono che le interazioni psico-sociali umane si spieghino unicamente attraverso i processi fisiologici sottostanti e negano l’esistenza di una differenza qualitativa tra esse e le interazioni degli animali non umani; i «dialettici» li accusano quindi di trascurare la peculiarità della dimensione produttiva umana (il lavoro) e di ignorare dunque la storicità specifica del vivere sociale. Ma gli uni e gli altri si rapportano erratamente alla storicità: i riduzionisti la concepiscono esclusivamente come cronologia globale del mondo fisico, mentre i «dialettici» riconoscono l’esistenza di una ulteriore storicità, legata alla coscienza collettiva, ma si concentrano solo su di essa e soprattutto la circoscrivono alla specie umana, nella convinzione che l’attività trasformativa dei non umani sia incosciente. Definire questo limite «specista» è esso stesso riduttivo: se infatti i «riduzionisti» non sono specisti, ma al costo di omettere nella loro spiegazione della realtà uno dei suoi aspetti fondamentali, l’evoluzione delle società senzienti, accusare i «dialettici» di semplice specismo significherebbe far loro il favore di dimenticare le grandi difficoltà che essi incontrano nel pensare la «natura» (ovvero, l’intera realtà materiale non umana, e la stessa realtà umana non immediatamente riducibile all’economico e al sociale)8.
Proprio dall’incapacità di inglobare nella storia certi aspetti della realtà catalogati tradizionalmente come espressione della «natura» consegue l’esclusione di talune problematiche dalla sfera della «politica»: in particolare, la problematica degli animali non umani; ed anche, com’è noto, quella delle donne umane.
Parlare in primo luogo della questione delle donne renderà più agevole l’arrivo alla questione degli animali non umani. Non perché le donne rientrino nella specie umana9, ma semplicemente perché la loro situazione è stata maggiormente analizzata: la sua caratterizzazione come rapporto politico di oppressione risulta quindi oggi più visibile.

Dall’oppressione delle donne all’oppressione degli animali non umani

A grandi linee, si può dire che l’oppressione delle donne consiste nell’estorsione di diverse forme di lavoro gratuito all’interno dell’unità produttiva familiare10.
Tale sfruttamento comprende parecchie attività: dalla gestione della casa alla cura dei familiari (marito, figli, parenti anziani e malati…), alla collaborazione non retribuita all’azienda di famiglia, alle prestazioni sessuali, per finire con la riproduzione. Queste attività hanno due punti in comune: il primo è di essere tutte correlate ad una meravigliosa, altruistica, eroica «essenza femminile», secondo la quale le donne sono «portate» a mettersi al servizio degli altri; il secondo, conseguente dal primo, è che tali attività non sono considerate forme di lavoro, ma una specie di estensione di un automatismo «naturale» delle donne fondato su un dato biologico, la procreazione. Ovviamente, l’analisi materialista mostra che lo sfruttamento materiale precede storicamente l’elaborazione della giustificazione ideologica: le donne non vengono costrette a tali compiti perché ab origine più disponibili o più portate a svolgerli per via della loro presunta «essenza», ma vi sono state semplicemente obbligate; solo successivamente, l’ideologia dell’«essenza femminile» di cui sopra è stata elaborata in modo tale da collegare tra loro e «biologizzare» attività che, al di fuori dell’unità produttiva familiare, non solo non sono percepite come affini ma vengono considerate a tutti gli effetti forme di lavoro, e di conseguenza vengono pagate in moneta sonante (eccetto la riproduzione).
Lo sfruttamento degli animali non umani (con la sua rilevanza politica) è camuffato in modo analogo. Le diverse attività che esso comprende – ingrassamento (per la carne), riproduzione (per il latte e le uova), malattia indotta (per la ricerca scientifica), etc. – sono considerate, al pari delle prestazioni estorte alle donne, estensioni di meri automatismi biologici, e spiegate come effetto automatico del realizzarsi di una «legge di natura» secondo cui gli animali «devono» mangiarsi tra di loro11; per questo, analogamente al caso delle donne, non sono considerate forme di lavoro e sono sottratte alla sfera della politica.
Sembra quindi possibile concludere che l’oppressione degli animali non umani consiste nell’estorsione di diverse forme di lavoro gratuito all’interno di diversi settori produttivi, tra i quali spicca quello zootecnico.

Obiezioni e risposte

Tranne che nel caso della sperimentazione biomedica (al giorno d’oggi, le «cavie umane» al servizio della scienza vengono pagate12, mentre quelle animali no), non è possibile comparare le funzioni degli animali non umani con analoghe occupazioni umane salariate. Questo è un primo elemento che rende difficile concepire tali attività animali come forme di partecipazione all’economia umana (la stessa difficoltà esiste, del resto, per le donne stesse, che pure sono umane!) Ma l’assenza di lavori umani equivalenti non prova nulla, se non che gli animali non umani occupano un posto talmente infimo nella società umana da ricoprire ruoli inaccettabili per gli umani13.
Un secondo elemento di perplessità è l’incapacità degli animali di concepire il valore monetario: ha senso parlare di «lavoro» nel caso di soggetti che, anche qualora pagati, non potrebbero usufruire del denaro guadagnato? Questo mi sembra un falso problema. Innanzitutto, se tale obiezione mostra qualcosa, mostra appunto che la questione dell’oppressione animale non è un effetto del capitalismo: il capitalismo è intervenuto a modificare un rapporto di produzione ad esso preesistente, legato a forme di economia in cui la forza-lavoro non era una merce di scambio. Tornando al caso delle donne umane, troviamo esattamente la stessa fenomenologia: l’economia politica patriarcale non è affatto dipendente dal capitalismo (ma quest’ultimo ne ha modificato alcuni tratti, ponendosi a volte come nemico, a volte come alleato14 del patriarcato). Inoltre, ridurre la lotta di classe ad una questione di (attribuzione o aumento di) salario significa in realtà perpetuare proprio il capitalismo, modo di produzione fondato sulla riduzione del lavoro a merce: un mondo senza sfruttamento e senza profitto sarà necessariamente un mondo senza lavoro salariato, un mondo in cui la proprietà collettiva dei mezzi di produzione provocherà nuove forme di organizzazione del lavoro; non si vede quindi perché l’impossibilità di accordare un salario agli animali dovrebbe costituire un problema, visto che il salario rappresenta in realtà niente più che lo schermo dell’impostura capitalista15 e in quanto tale deve essere abolito.
Un terzo elemento di possibile critica alla mia tesi è l’assenza di una «coscienza animale», intesa in due modi: in quanto capacità di negoziare con l’altro, oppure come coscienza di classe. Nel primo caso, si ritiene che l’animale non partecipi ai processi produttivi della società umana perché privo della volontà di lavorare, e dunque incapace di negoziare la vendita della sua forza-lavoro (attraverso l’accettazione di un contratto). Questa idea è chiaramente figlia della cultura contrattualistica borghese e ne eredita le aporie: l’individuo è concepito come un atomo razionale, posto in relazione con altri atomi attraverso accordi «liberamente» conclusi, nei quali si esprimerebbe la sua «libera» volontà; il meccanismo della lotta di classe, che in realtà fonda e controlla la transazione, è completamente rimosso! Di fatto, l’individuo umano non «sceglie» di lavorare, ma si trova prigioniero di una struttura sociale che gli impone di lavorare, o meglio di vendere il proprio lavoro, per sopravvivere. Similmente, gli animali non umani sopravvivono finché «lavorano» (ovvero, ingrassano, o producono latte e uova); se non producono, o quando non producono più16, vengono eliminati. Nel secondo caso, si ritiene che l’assenza di una coscienza di classe indichi l’assenza di un concreto rapporto politico tra sfruttati e sfruttatori: ma questo implica ricadere ancora una volta nell’errore idealista di cercare nella trama delle idee la fonte della realtà! Il fatto che i non umani non abbiano17 una coscienza di classe non può in alcun modo negare il concreto rapporto di appropriazione ed oppressione esercitato su di essi dagli umani, così come l’assenza di una coscienza di classe femminile fino a pochi decenni fa non smentisce l’esistenza millenaria dell’oppressione patriarcale.
Infine, il fattore che più di tutti ostacola l’integrazione teorica degli animali non umani nelle relazioni sociali umane è l’idea della «differenza di specie». Come ho già scritto (v. nota 9), sarebbe bene disfarsi del concetto di «specie». In special modo chi si definisce «antispecista» dovrebbe prestare particolare attenzione al fatto che la critica della discriminazione rispetto alla specie comporta necessariamente lo sprofondamento dell’idea stessa di specie. Le specie (così come le «razze», o i «sessi») sono categorie fluide, le cui condizioni di esistenza corrispondono a fattori biologico-ambientali e/o sociopolitici, che variano storicamente. Dal punto di vista della biologia evolutiva, una specie è un gruppo di individui capaci di interfecondità; nel modello neo-darwiniano, la speciazione (ovvero, la comparsa di nuove specie) avviene nel momento in cui cambiano i parametri dell’interfecondità, a causa di un isolamento geografico che si traduce in isolamento genetico. Dal punto di vista politico, invece, la categoria discriminante della «specie» non corrisponde affatto a quella biologica: si tratta di un prestito ideologico il cui scopo è identificare gruppi di individui oppressi senza far riferimento all’oppressione stessa! In realtà, gli «animali non umani» di cui parla la filosofia politica animalista non sono per niente definiti da un’appartenenza biologica, bensì dal fatto di essere individui oppressi dagli umani in forme comuni e coinvolti in un medesimo sistema produttivo18. Lo stesso discorso vale per le «donne», i «neri», etc., che non sono categorie biologiche né tantomeno ontologiche, ma categorie in tutto e per tutto politiche. Per cui, gli animali non umani inglobati e sfruttati nei rapporti di produzione umani possono risultare all’analisi politica molto più vicini alle donne umane, inglobate e sfruttate in contesti e modi affiniche ad altri animali non umani, che vivono in stato selvatico e non soffrono dell’azione umana se non in modo accidentale19.

Il Veggie Pride è una manifestazione politica

Torniamo al Veggie Pride: ricordiamo brevemente cosa è il Veggie Pride, e consideriamo quindi la relazione tra il Veggie Pride e l’analisi appena svolta.
Il Veggie Pride è l’espressione dell’orgoglio di chi rifiuta di mangiare gli animali (la carne animale e i prodotti di origine animale). I partecipanti al Veggie Pride rivendicano l’aver rinunciato al consumo di corpi animali e l’aver ripudiato tutto il sistema produttivo che genera questo consumo:
Noi vogliamo:

Affermare il nostro orgoglio di rifiutare di far uccidere animali per il nostro consumo
Rifiutare di rubare a degli esseri senzienti l’unico bene che possiedono, la loro carne, la loro vita; rifiutare di partecipare ad un sistema concentrazionario che trasforma quella vita in un inferno permanente; rifiutare di fare tutto questo per il solo piacere del gusto, per abitudine, per tradizione: tale rifiuto dovrebbe essere il minimo che si possa fare.
Ma sappiamo quanto sia difficile, quando ottusa violenza e pregiudizio sono la norma sociale, dire di no.
Noi vogliamo affermare il nostro orgoglio di dire quel «no»20.

Il Veggie Pride, dunque, si configura principalmente come la rivendicazione di un atto: il rifiuto, il dire «no» (all’uccidere, al rubare la vita, al partecipare al sistema, etc.). La fierezza espressa dal Veggie Pride non è relativa ad un’identità, ma ad un gesto, e al suo significato politico, che è, fondamentalmente, quello della disobbedienza.
Ma la disobbedienza dei vegetariani e dei vegani è discreta; per questo, può essere efficacemente repressa in modo ovattato, attraverso l’imposizione dell’adeguamento alla norma corrente in mille modi (portando il proprio pasto da casa, accettando di cucinare cadaveri per i familiari carnivori, regalando ampi sorrisi a chi sfotte o insulta…). Queste imposizioni quotidiane coniugano allo scopo pratico (semplificare la vita a gestori di ristoranti e mense, a padri, mariti e compagni, e proteggere l’ego dei semplici cretini) uno svuotamento di contenuto del gesto vegetariano, che da atto di disobbedienza è costretto a divenire gesto personale, intimo, da svolgere in privato senza far troppo rumore, senza dar fastidio a nessuno; quel che è peggio, esso è introiettato dagli stessi vegetariani come tale.
Difatti, le feste vegetariane/vegane tradizionali si basano sulla presentazione di uno «stile di vita» – ovvero, di un modo d’essere – da parte di singoli militanti nei confronti di un pubblico immaginato come una somma di singoli individui; in altre parole, si propaganda una «scelta personale» per incoraggiare altre singole scelte personali, in un rapporto one-to-one.
Il Veggie Pride è stato concepito per proporre una visione diversa delle cose. Nel Veggie Pride, i vegetariani ed i vegani si presentano come un insieme, riunito da quel principio di rifiuto e di disobbedienza, e il loro intento prioritario non è «convincere» singole persone a diventare come loro, ma esibire quel loro gesto di «dire no» come gesto pubblico, come contestazione di uno dei pilastri – quello più nascosto e taciuto – della società: il sistema di oppressione degli animali non umani. In questo, il Veggie Pride si colloca nella scia di qualunque altra dimostrazione politica: i cortei anti-G8 non intendono convincere la gente a diventare «no-global», ma protestare contro l’ordine economico mondiale; i cortei delle donne non intendono convincere le altre donne ad assumere uno «stile di vita femminista»21, ma protestare contro l’ordine patriarcale della società, a partire dalla famiglia, passando per il mercato del lavoro per finire con lo Stato. Certo, lo scopo di queste manifestazioni è anche produrre informazioni e suscitare dibattiti per incoraggiare l’allargarsi della coscienza politica della collettività su determinati temi: ma si tratta sempre di rapporti pubblici tra componenti collettive (la componente protestataria, il pubblico, e il sistema di potere contestato), e non di contatti tra singoli individui.
E visto che gli altri movimenti sono chiamati in causa: se le manifestazioni anti-G8 non denunciano l’economia politica patriarcale, e se quelle delle donne a loro volta non protestano contro il liberismo, sarà forse questo un motivo per accusarle di «apolitismo»? Certamente no! È chiaro che le une e le altre potranno sviluppare diversi temi, ma per attualità e/o pertinenza, di certo non per cercare una qualche legittimazione, o per placare un complesso di inferiorità. Complesso che invece, in mancanza di spiegazioni più approfondite della semplice idea che tutto sia «legato», sembra impregnare le critiche di quegli animalisti «radicali» che ritengono un Veggie Pride «apolitico» se non denuncia il capitalismo.
Torniamo al gesto vegetariano. Come già detto, nel Veggie Pride il gesto di disobbedienza è esposto pubblicamente, in forma di protesta. Esso si traduce anche in una richiesta di riconoscimento dell’esistenza sociale – e quindi dei diritti – dei vegetariani e dei vegani:

Agli animali allevati e uccisi non si riconosce alcun diritto; ma a noi che siamo solidali con loro ne vengono riconosciuti, almeno teoricamente. Intendiamo esercitare pienamente i nostri diritti, perché sono i nostri, e perché sono i loro: sono gli unici diritti che essi oggi, indirettamente, posseggano.
Abbiamo il diritto di poter mangiare correttamente nelle mense, al lavoro, a scuola e in ogni luogo collettivo. Abbiamo il diritto di crescere i nostri figli senza imporre loro i prodotti del mattatoio.
Chiediamo che le nostre tasse non vengano più utilizzate per pagare la carne o il pesce degli altri22.

Queste rivendicazioni non rappresentano, come si potrebbe ingenuamente pensare, un’involuzione egoista del soggetto vegetariano, preoccupato di proteggersi e di vedere riconosciuta e tutelata la propria nicchia. Al contrario, si tratta della massima estensione della solidarietà. Una solidarietà che consiste infatti nel proiettare sull’animale non umano, che nella società umana è un non-essere, un vuoto, un nulla, l’essere che a noi è doppiamente riconosciuto, in quanto umani e in quanto cittadini.
Difatti, noi abbiamo diritto, fondamentalmente, a non essere negati, né fisicamente, né simbolicamente; ma come vegetariani, viviamo l’imposizione di una negazione da parte della società, che non riconosce la nostra esistenza, e subiamo simbolicamente l’annientamento che gli animali non umani subiscono fisicamente. Con il Veggie Pride, rifiutiamo sia la nostra negazione simbolica, assumendo la fierezza del nostro gesto di disobbedienza, sia la negazione fisica degli animali non umani, denunciandone il massacro: le due cose si intrecciano, e l’una implica l’altra. Recuperando così pienamente il nostro essere sociale, contribuiamo nel contempo a colmare il vuoto a cui la società condanna i non umani sfruttati, estendendo a loro, per quanto possibile, la «personalità» che è attribuita a noi. Cosicché, attraverso questa proiezione, nel Veggie Pride noi affermiamo implicitamente l’inclusione degli animali non umani nella nostra società, nella nostra cerchia politica.
Per questo, inoltre, il Veggie Pride costituisce un’esperienza che oltrepassa la compassione. La compassione (il «sentire con», ovvero l’immedesimazione) è un fenomeno individuale, immerso nell’esperienza soggettiva, anche quando filtrata con lenti filosofiche o religiose. Il Veggie Pride è viceversa un evento collettivo, pubblico. Di conseguenza, nel Veggie Pride, l’esperienza di identificazione dei vegetariani con gli animali non umani coinvolti nella produzione alimentare non rappresenta una mera proiezione emozionale, ma al contrario l’espressione del riconoscimento di una comunità di destino all’interno di un mondo di relazioni comuni, quello tra esseri senzienti: si tratta di una solidarietà politica23.

Conclusione

Per tutte le ragioni esaminate, il Veggie Pride rappresenta un evento politico a tutti gli effetti. Inoltre, per il suo carattere orizzontale24, esso può – e vuole – costituire una tappa nella costruzione di una soggettività politica autonoma e specifica. Non si può continuare a negare la specificità della questione dello sfruttamento dei non umani: trasversalità di analisi (quando sia giustificata da convergenze precise e dimostrate) e cooperazione con altri movimenti sono da perseguire, ma non al prezzo di perdere l’unicità della nostra modalità di azione politica, che è quella di rifiutare e contestare tutte le forme di alienazione dei corpi e delle vite degli animali non umani per il consumo e vantaggio umano.
Una unicità, lo ripeto ancora una volta, che non ha nulla a che vedere con il semplice identitarismo: il nostro scopo non è (e non deve essere) la difesa di una identità, bensì l’annientamento di uno dei rapporti di produzione (quello zootecnico) su cui si basa la nostra società, il rovesciamento dei rapporti sociali che ne derivano (l’oppressione degli animali non umani) e la costruzione di quel nuovo mondo di relazioni di cui il Veggie Pride è icona provvisoria, ma la cui vera essenza è, oggi, ancora impossibile da definire25.

Note

1. Rientrano in questa categoria i casi in cui il termine «apolitico» costituisce una maschera burocratica, per giustificare collaborazioni trasversali con la politica «istituzionale». Tralascio per semplicità i casi in cui l’«apoliticità» diviene semplice sinonimo di qualunquismo politico, se non di vere e proprie simpatie per la destra.
2. Rientrano in questa categoria tutti i tentativi di concettualizzare una «causa comune» delle diverse forme di oppressione, tanto quelli che la individuano nel capitalismo (un sistema di rapporti di produzione troppo recente, e troppo specifico, per poter costituire la radice di fenomeni come l’autorità religiosa, l’economia patriarcale e quella specista), che quelli che la cercano in una presunta, originaria «ideologia del dominio».
Questi ultimi ricadono nel vecchio errore di attribuire a cause ideali il ruolo motore della storia umana, errore ampiamente contraddetto dal materialismo storico; un esempio tipico è l’articolo «Antispecismo» su Anarchopedia, che presenta il rovesciamento della società come effetto di una rivoluzione ideologica: «L’antispecismo […] non è un movimento che intende riformare la società umana moderna, ma cambiarla radicalmente eliminandone le spinte discriminatorie, liberticide, violente nei confronti dei più deboli, gerarchiche, autoritarie ed antropocentriche. In una sola parola rivoluzionandola abbattendo l’ideologia del dominio che la contraddistingue» (corsivo mio). Non solo: presentando tale «ideologia» come origine di tutti i conflitti politici della storia dell’umanità, essi incorrono nell’appiattimento di ogni specificità – sincronica per fenomeni diversi e diacronica per fenomeni analoghi -, come nell’articolo «Non malvagio ma sbagliato» di M. Filippi (Veganzetta, luglio 2007): «In questo libro [Jim Mason] sostiene infatti che le varie questioni che affliggono il nostro vivere (la guerra, la violenza intra-umana, il disastro ecologico, la condizione degli Animali, ecc.) siano tutte manifestazioni di una medesima ideologia, l’ideologia del dominio, da cui poi discende ‘l’essere micidiale della storia’ (Ortese) con il suo carico di oppressione ‘dell’uomo sull’uomo’ e ‘dell’uomo sulla natura’» (corsivo mio). V. anche oltre, note 18 e 19.
3. Salvo precisazioni, con il termine «questione animale» intendo tutte le problematiche relative alla vita sociale delle comunità animali, e con «animale» intendo «essere senziente» di qualunque specie.
4. Sempre che se ne parli: spesso sono gli animalisti stessi ad autocensurarsi.
5. In realtà, gli organizzatori italiani proponevano che la tappa di contestazione si svolgesse di fronte ad una «normale» macelleria, ritenendo che un obiettivo di questo tipo fosse più pregnante rispetto alla finalità della manifestazione, ma, oltre a questa, anche significativo in merito alla stessa problematica del lavoro umano.
6. Ovvero, che ammette come fondamento della realtà un’unica specie di sostanza, regolata da leggi analoghe.
7. V. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, Primo manoscritto, XXIV.
8. Una esposizione molto lucida di queste difficoltà si trova in Sebastiano Timpanaro, «Considerazioni sul materialismo», Quaderni Piacentini 28 (settembre 1966), pp. 76-97 (ristampato in S. Timpanaro, Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970-1975, e in S. Timpanaro, Il verde e il rosso, Odradek, Roma 2001). In particolare: «In confronto al ritmo evolutivo della struttura economico-sociale (e dei fatti sovrastrutturali da essa determinati), la natura, ivi compreso l’uomo in quanto essere biologico, muta anch’essa come ci ha insegnato l’evoluzionismo, ma con un ritmo immensamente più lento e graduale […] Se dunque studiamo un periodo anche molto lungo di storia umana avendo l’occhio alle trasformazioni della società, può essere legittimo trascurare il livello fisico-biologico, in quanto esso costituisce, relativamente a quel periodo, una costante. E, intendiamoci, analogamente può essere lecito anche al marxista, quando si tratta di fare storia di eventi politici o culturali avvenuti nell’ambito ristretto di una situazione economico-sociale fondamentalmente unitaria e statica, considerare tale situazione come una costante e fare storia della sola sovrastruttura […] Ma se, facendoci forti di questo carattere di relativa immobilità (entro un certo periodo) della struttura economico-sociale noi volessimo concludere che essa non ha nessun potere condizionante sulla sovrastruttura o addirittura nessuna esistenza reale, commetteremmo un tipico sofisma «storicistico». Ora, un sofisma del tutto analogo consiste nel negare il condizionamento che la natura esercita sull’umanità in generale, per la ragione che questo condizionamento non ha uno spiccato valore caratterizzante rispetto a singole epoche della storia umana. Il marxista si mette in una posizione scientificamente e polemicamente debole se, dopo avere respinto gli argomenti idealistici tendenti a dimostrare che l’unica realtà è lo Spirito e che i fatti culturali non hanno alcuna dipendenza dalla struttura economica, prende poi a prestito i medesimi argomenti per negare la dipendenza dell’uomo dalla natura».
9. Sarebbe bene sbarazzarsi una volta per tutte del concetto di specie, appesantito purtroppo dall’uso oggi esasperato della coppia specismo/antispecismo. Il concetto di specie non rappresenta strutture oggettive del mondo come volevano Platone, Aristotele ed i sistemi scientifici pre-moderni. Esso non può rivestire che un ruolo puramente funzionale, sia nel campo delle scienze «della natura» che in quello della scienza politica (v. oltre).
10. V. Christine Delphy, L’ennemi principal, vol. 1, Éditions Syllepses, Paris 1998. Delphy chiama questo sistema produttivo «economia politica patriarcale» (économie politique du patriarcat).
11. Per quanto riguarda la sperimentazione animale, si invoca un evoluzionismo rozzo secondo cui l’uso di animali non umani nella medicina umana costituirebbe una manifestazione del trionfo adattativo della specie umana (un esempio particolarmente desolante è il pamphlet di Mario Campli «Sperimentazione sugli animali: le ragioni etiche», http://www.sci-med.it/articoli/Vivisezione_Etica.html).
12. Ovviamente, l’elargizione di questo salario non costituisce in nulla una giustificazione della pratica (v. oltre).
13. Fenomeno non diverso, in fondo, dalla divisione del lavoro tra gli umani stessi.
14. «… si può ipotizzare che, per incoraggiare le donne a sopportare delle situazioni matrimoniali di sfruttamento, l’amore non sia sufficiente. Le loro chances oggettive sul mercato del lavoro, ovvero la loro relegazione in fondo alla scala dei posti e delle remunerazioni, giocano un ruolo. Esse costituiscono una incitazione oggettiva al matrimonio. Qui, è il modo di produzione capitalista, o perlomeno il mercato del lavoro, che rappresenta la variabile a monte e la condizione strutturale sul fondo della quale si può realizzare lo sfruttamento del lavoro domestico nella famiglia.» Christine Delphy, L’ennemi principal, cit., p. 14 (traduzione mia).
15. «… benché solo una parte dei lavoro giornaliero dell’operaio sia pagata, mentre l’altra parte rimane non pagata, benché proprio questa parte non pagata, o sopralavoro, rappresenti il fondo dal quale sorge il plusvalore o il profitto, ciò nonostante sembra che tutto il lavoro sia lavoro pagato. […] Sulla base del sistema del salario anche il lavoro non pagato sembra essere lavoro pagato.» Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, cap. 9 (trad. it. di P. Togliatti).
16. Nel caso dell’animale da macello, quando l’ingrassamento è giunto al termine, ovvero quando l’animale sta per raggiungere l’età adulta.
17. Per il momento, visto che nulla vieta di immaginare svolte evolutive in questo senso.
18. È importante chiarire che, poiché forme di sfruttamento e sistemi di produzione variano geograficamente e storicamente, anche la categoria politica degli «animali non umani» deve essere compresa in modo dinamico (così come le specie biologiche, ovviamente). V. la critica di Christine Delphy dell’astoricismo di molte concezioni del patriarcato (L’ennemi principal, cit., Avant-propos, pp. 17-18), e in particolare: «Molti credono che una volta ritrovata nel passato la nascita di un’istituzione, si possieda la chiave della sua esistenza attuale. In realtà, questo non spiega la sua esistenza attuale, e neppure la sua comparsa nel passato. Infatti bisogna spiegare la sua esistenza in ogni momento attraverso il contesto di quel momento; e la sua persistenza – se si tratta davvero di una persistenza – attraverso il contesto presente. Certe spiegazioni che si vogliono ‘storiche’ non sono veramente storiche, poiché non tengono conto delle condizioni di funzionamento di ogni periodo e risultano dunque, paradossalmente, a-storiche» (traduzione mia).
19. Per questo motivo, il movimento femminista può rappresentare un interlocutore molto più fecondo di quello ecologista, tradizionalmente – ed erroneamente – considerato l’alleato più prossimo del movimento di liberazione animale. Qualcuno osserverà, in base all’opinione generica che tutte le forme di oppressione siano «legate» ed abbiano un’unica e medesima origine (v. nota 2), che lo stesso si potrebbe dire degli altri movimenti di liberazione umana e che le donne non sono più vicine agli animali non umani degli altri soggetti umani oppressi. Ma al di là delle analogie di superficie, una tale affermazione ha bisogno di essere dimostrata. L’oppressione delle donne si accosta a quella degli animali nell’essere interamente radicata in categorizzazioni biologiche ancora oggi ritenute oggettive (mentre tutti sono concordi nell’ammettere che le «razze» non esistono, quanti sono disposti ad accettare che i generi sessuati e le specie non esistano?), nella conseguente esclusione delle loro attività dalla sfera politica ed infine nella corrispondenza (parziale nel caso delle donne) tra lavoro e funzioni corporee. Nel caso degli altri soggetti umani, quali sarebbero esattamente i caratteri coincidenti?
20. Manifesto del Veggie Pride.
21. Il concetto stesso suona ridicolo! E questo ridicolo dovrebbe condurre il movimento per gli animali a riconsiderare con un po’ di senso critico le proprie parole d’ordine…

22. Manifesto del Veggie Pride.

23. La contrapposizione tra compassione e solidarietà politica non deve assolutamente essere letta attraverso il sorpassato schema della contrapposizione tra corpo e mente, tra istintività e razionalità! Si tratta semmai, ancora una volta, di superare la sfera del personale, del privato, per approdare ad una concezione sociale del sé.

24. «Vogliamo che durante la sfilata ci siano solo delle persone che, a proprio nome, vengono ad esprimere il loro orgoglio di opporsi allo sfruttamento e al massacro degli animali. […] Concretamente questo significa che non devono esserci sigle o nomi di associazioni sulle bandiere e sui cartelli usati nel corteo» (v. le FAQ).

25. Per chi, come me, ritenga che la filosofia non possa essere altro che la descrizione razionale dell’esistente, e non la figurazione profetica di un astratto dover-essere.

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