Lui era Sher Khan, la tigre pachistana. In morte di un leader resistente

Roma, dicembre 2009

Il 9 dicembre le agenzie stampa battono un comunicato: il freddo ha  ucciso un altro barbone, il corpo congelato è stato ritrovato su un marciapiede di Roma. Un homeless, un barbone come tanti, un pakistano, 52 anni, di nome  Mohammed. Quasi tutti si chiamano Mohammed  e alle spalle , quasi sempre, storie tutte uguali. Ma  Mohammed  Muzzafar Alì lo conoscevano in tanti, lui era un leader del movimento antirazzista, un capopopolo, un oppositore politico istruito. Era un ribelle nato, Sher Khan. Si batteva perché a chi era dovuto fuggire fossero riconosciuti i diritti che nei paesi di origine erano negati.  Aveva dato vita all’Uawa, Unione dei lavoratori asiatici: afgani, pachistani, bengalesi, indiani, cinesi, cingalesi. Aveva guidato la storica occupazione della Pantanella nel 1991, quando 3mila persone avevano alzato la testa per trovare un luogo dove  – appunto – non morire di freddo. Si era battuto contro lo schiavismo diffuso nelle nostre campagne, dove il ricatto della clandestinità costringe migranti di tutto il mondo a lavorare in condizioni di schiavitù e spesso a morire in cattività. In tanti lo seguivano, non sempre per benevolenza: a volte erano squadracce neofasciste che cercavano lui o quelli come lui. Aveva organizzato manifestazioni, scioperi della fame per denunciare la reclusione senza colpe  riservata  ai migranti. Aveva fatto da mediatore fra comunità in conflitto tra loro, e non si era lasciato assorbire dalle associazioni  “per gli stranieri” e dal loro modello  organizzativo quasi aziendale. La sua gente si fidava di lui, sapeva come sopravvivere  e aiutava la gente a sopravvivere. Una sera, ubriaco, aveva litigato  con l’addetta ad un botteghino della metropolitana. Non aveva il biglietto ma voleva salire lo stesso, probabilmente si erano strattonati, la controllora aveva chiamato la polizia che in questi casi corre: il fermo,  i verbali compilati con solerzia, la parolina ” palpeggiamento” che spunta tra un foglio e l’altro. Ne era uscito pulito ma non integro. Soffriva di cuore, beveva sempre di più, era tornato in strada. Lui, che aveva  partecipato a ogni corteo, lotta, occupazione di case, lui che una casa non l’avrebbe mai avuta e sarebbe morto di sconforto e di freddo su un marciapiede di Piazza Vittorio, era in attesa  del verdetto sulla domanda di asilo che aveva  presentato alla Commissione  territoriale romana. Del resto in Pakistan non poteva tornare, visti i suoi precedenti politici che lo avrebbero portato direttamente in un carcere, nei migliori dei casi.

Ci tornerà il suo cadavere  a  Dera Ghaji Khan, la città dove era nato, con  il permesso di soggiorno nuovo, ormai inutile.

( Fonte e citazioni da La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani di  Luca Rastello, Editori Laterza, Roma 2010, p. 9-10.

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