La resistenza delle migrazioni


Il Popolo migratore – film di Jacques Perrin – 2001
Il mondo visto dall’alto, senza frontiere, unica e meravigliosa alternanza di ghiacci e deserti, un set infinito che capta i paesaggi di John Ford e la Grande Muraglia, conquista i cieli di Manhattan nel raggelante flash sulle Twin Towers e sfiora la Tour Eiffel, tutto attraverso lo sguardo del Popolo migratore, gli uccelli, seguiti nel loro vagabondare dalla macchina da presa volante di Jacques Perrin. Capolavoro unico, impresa grandiosa dell’attore-produttore francese, che già con Microcosmos, le peuple de l’herbe (1976) aveva restituito il silenzio alle creature aliene del pianeta, Il popolo migratore, è un film «muto», o quasi, avventura alata dove la sapienza scientifica, il cinema e la poesia si fondono in un tutt’uno lisergico. Gli operatori sul deltaplano fanno da battistrada alle anatre imprintate (ma ci sono anche esemplari selvaggi), che seguono i loro «simili», gli amici, i parenti, gli uomini. Il cast infatti può dirsi dis/umano, fuori da ogni intento didattico e lontano migliaia di chilometri (la sterna codalunga batte ogni record nella sua migrazione: 36.000 km) dai documentari tv drammatizzati ad arte. Il popolo migratore è una sinfonia di immagini e di suoni, transiti onirici, rivelazione di un pianeta che nessun satellite ci restituirà mai così avvolgente. Musica originale di Bruno Coulais, Orchestra Bulgara, e voci di Nick Cave e Robert Wyatt, il più sensibile interprete dei pennuti in viaggio (il suo disco Shleep lo mostra in copertina mentre dorme su una colomba in volo). Fuori campo, poche parole accompagnano le grandi migrazione di gru e aquile, pellicani e tortore, fenicotteri e albatros. Nella versione italiana (distribuisce Lucky Red) pochi tocchi in più (dialoghi aggiunti di Danilo Selvaggi) enfatizzano tensione e colore. «La promessa del ritorno è stata mantenuta…» dice alla fine Jacques Perrin, che ha seguito le formazioni geometriche tra nuvole e pioggia seguendo il sole e le stelle, riferimenti astronomici degli uccelli, navigatori infaticabili sulle rotte verso l’emisfero nord a primavera, dove si riproducono. Mentre l’autunno li fa volare in direzione sud, oltre ogni limite. Scolpiti nel cielo, gli uccelli diventano icone della Terra, testimoni della sua solitudine, mentre gli uomini concentrati negli insediamenti urbani sembrano i veri estranei, dissociati da questi angeli, presi di mira dai fucili dei cacciatori.
Fonte il Manifesto 16/11/2002

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