Harambe è vivo e lotta insieme a noi

Vi ricordate di Harambe? A quanto pare, nei mesi successivi alla sua morte, il gorilla tenuto prigioniero e ucciso nello zoo di Cincinnati è stato oggetto di una serie infinita di meme ridicoli (le vignette che circolano su internet). Da questa estate fino ad oggi il suo spettro non ha smesso mai di agitarsi, anche se in maniera imprevista e spesso infelice. Molte volte la puerilità delle battute sul suo conto sembra calpestare, più che far fiorire, la memoria di Harambe.

Pare però che i suoi carcerieri e aguzzini (conservatori ed educatori della fauna selvatica, come disgustosamente si definiscono) siano stati messi più in difficoltà da questa esaltazione del gorilla a nuova icona pop (o trash) di quanto siano riuscite a fare le proteste vere e proprie degli animalisti, che pure non sono mancate.
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Per le continue attenzioni dei troll che rilanciavano materiali relativi ad Harambe, quasi sempre demenziali, l’account twitter dello zoo ha dovuto chiudere per qualche tempo. La paura da parte loro è evidentemente che quello che vorrebbero far passare come un imbarazzante incidente di percorso abbia delle ripercussioni negative sull’immagine del loro zoo: non deve trapelare l’idea che gli animali là detenuti vivano male o, ancora più a fondo, che il fatto stesso che si trovino là dentro possa essere messo in discussione. Continuare a rivangare la fine di Harambe, anche solo per scherzo, comporta un pericolo serio per la loro istituzione, suscitando scomode domande e riflessioni. E’ stato giusto uccidere una scimmia per salvare il bambino che era caduto nel suo recinto? Era veramente a repentaglio la vita del piccolo umano? Certi primatologi hanno liquidato vilmente la questione come un atroce dilemma. Qualcun altro potrebbe andare oltre e chiedersi cosa ci facesse Harambe intombato tra quelle mura.

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Passando dai social network (dove il video che ritrae la scena immediatamente precedente la sua fucilazione è diventato virale) il primate è finito persino nei videogiochi, sulle magliette e negli album di musica rap. Le pagine a lui dedicate su Facebook sono almeno due: una è indicata, con un’ironia sottile, come personal blog, l’altra come la pagina di un personaggio politico (!).

E alle presidenziali americane dell’8 novembre, dovendo scegliere tra Clinton e Trump, 11000 americani hanno votato per Harambe! Sulla scheda elettorale hanno seriamente scritto il suo nome. Possibile che qualcuno tra di loro fosse abbastanza sensibile e intelligente da non utilizzare Harambe soltanto, come è stato scritto su Vox, i progressisti per deridere i moti scimmieschi dei mass media mentre si evitano le questioni veramente importanti e i conservatori per sbeffeggiare l’isteria dei liberali per istanze che loro reputano assurde (donne, froci, animali, minoranze etniche, poveri in canna…), ma che lo abbia fatto invece immedesimandosi e solidarizzando con chi in realtà è un simbolo luminoso dell’oppressione più dura?  Basta vederlo nel video, pochi istanti prima dello sparo, mentre si aggira tra due pareti di roccia, nella fossa lussureggiante dove era stato rinchiuso: https://www.youtube.com/watch?v=Py_1aCt2c0s. Si racconta che gli hippy negli anni Sessanta per dissacrare e ammutolire i candidati democratici ad una convention – erano le primarie -, portarono a braccia un maiale sotto il palco e chiesero a gran voce che fosse lui a correre per la casa bianca.

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Ed ora è accaduto lo stesso… Harambe for president! Gli animali in posizioni politiche di rilievo sono sempre stati motivo di riso e di sdegno (il cavallo di Caligola in Senato), ma potrebbero diventare anche una nuova bandiera dell’anarchismo.

Pare per fortuna che si sia estinto quel moto di imbecillità collettiva per cui tantissimi (anche qualche animalista) sembrava accusare della fine del gorilla più la madre, che per negligenza aveva lasciato che il suo bambino cadesse nella fossa destinata ad Harambe, dei padroni dello zoo.Secondo questi sprovveduti (che con le loro uscite hanno sconfinato spesso nel sessismo e nel razzismo: la madre del bambino caduto nella fossa è una donna di colore) la morte del gorilla sarebbe stata provocata da un genitore irresponsabile, non dal sistema di reclusione e sfruttamento in cui Harambe si trovava, controllato a vista da uomini in armi.Con l’esplosione di popolarità che ha avuto Harambe (così duratura, per altro) il caso ha contaminato il dibattito pubblico sulle condizioni sociali degli afroamericani, partorendo mostri interessanti.

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C’è chi dice che Harambe faccia tanto ridere perché in fondo permette di fare dell’ironia razzista senza essere criticati. E il bestione è stato assimilato per celia a tante celebrità di colore dal mondo dello spettacolo o della politica. La comunità nera ha preso parte ampiamente a questo gioco che conturba le linee divisorie tra le specie.  Qualcuno ha fatto una connessione strabiliante scrivendo sotto una foto del gorilla (l’ennesimo meme, ma ben riuscito) “black lives matter”.black-life-matters

Chissà come reagirebbero i promotori di quel movimento, certamente umanista e infarcito di pastori protestanti, di fronte a questo accostamento! Difficilmente si sarebbero ricordati di Frantz Fanon e delle sue parole secondo cui il negro letteralmente non è un umano, che rovesciano la prospettiva di un’umanità come valore positivo e condiviso (e non invece particolare ed esclusivo) e aprono un nuovo orizzonte alla battaglia per la liberazione animale. Un punto di vista antispecista e antirazzista insieme manderebbe per altro in cortocircuito la logica che fa della parola “scimmia” un insulto offensivo e per i neri e per le scimmie, come se (alcune) scimmie non fossero effettivamente nere e tutti gli uomini (tra cui anche i neri) non fossero effettivamente scimmie. Un altro parallelo interessante tra l’uccisione di Harambe e quella dei neri assassinati dalla polizia è il ruolo che ha avuto la ripresa di quelle scene e la sua rapidissima diffusione, resa possibile dalle nuove tecnologie e i social network.

E infine, in Italia, in un sondaggio online lanciato qualche mese fa dalla Gazzetta del Mezzogiorno perché i lettori esprimessero liberamente una preferenza su come chiamare il nuovo ponte costruito a Bari, Harambe nel giro di poco ha sbaragliato tutti i concorrenti (imprenditori locali, un presidente della squadra di calcio, l’ex sindaco), con un importante flusso di voti anche dall’estero. La solidarietà per Harambe è chiaramente internazionalista, anche se (quasi) tutti impugnano il suo ricordo senza aver consapevolezza dell’ingiustizia che il gorilla ha vissuto, ben prima di essere ammazzato, tra le mura dello zoo di Cincinnati.

E’ sottile, sempre sul punto di essere valicato, il confine che separa la burla dall’indignazione sincera. Se questa fatica a sgorgare è solo per la gabbia che le impone la cultura antropocentrica, tanto da contenerla, da farla apparire inopportuna e far sentire vergogna a chi spontaneamente è indignat*. Uno dei meme che sono stati inventati rappresenta un uomo (o una donna) che stringe i pugni quando sente qualcuno dire che “Harambe era soltanto un gorilla”: l’umorismo è palese nelle intenzioni dell’autore del meme, ma non vi ricorda quella citazione famosa (attribuita erroneamente ad Adorno) secondo cui Auschwitz comincerebbe ogni volta che qualcuno guardando ad un mattatoio dice “sono soltanto animali”?

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E il fatto che certi, esasperati dall’ossessione della gente per Harambe, sentissero il bisogno di affermare che era soltanto un gorilla, come per rassicurarsi sul fatto che non fosse successo nulla, non mostra proprio in maniera lampante che Harambe non era solo un gorilla? Che la vita di un animale, umano o meno che sia, non si esaurisce mai nell’identificazione della sua “specie” di appartenenza? Che la sorte che tocca agli animali negli zoo è intollerabile a prescindere dal fatto che non siano “della nostra stessa specie”? Insomma, nel caso di Harambe sembra quasi assente il dolore cieco e l’ottusità rancorosa che ha smosso con la sua morte il leone Cecil (altro cadavere che quest’anno ha dato vita ad un fenomeno mediatico).

Paradossalmente la sua storia terribile ha messo in moto la fantasia e l’ilarità generale. Le risate però, quando prendono la direzione giusta, scuotono le fondamenta del potere, possono far crollare le mura degli zoo e non soltanto di quelli.

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2 risposte a Harambe è vivo e lotta insieme a noi

  1. Resistenza Animale scrive:

    Ciao, siamo ben consapevoli che “bitch” non sia un insulto. Rivendichiamo il termine con orgoglio (come del resto tanti altri termini usati come offesa: “frocio”, “vacca”, “negro”, ecc.).
    Tuttavia, non so se, al di là del meme, hai letto l’articolo. Quel meme, insieme ad altri che compaiono e che mostrano tutti schemi discriminatori, è un esempio del modo in cui è stata usata l’immagine di Harambe per denigrare categorie di esseri umani, in alcuni casi (come nel caso di slut-shaming di cui sopra) difendendo Harambe e al contempo squalificando le donne o alcune di loro, in altri casi squalificando di fatto sia gli animali che le persone di colore (lo si vede nelle altre due immagini). L’articolo lo spiega, e definisce esplicitamente “imbecillità” la tendenza ad addossare la colpa della morte di Harambe a quella singola donna che non ha sorvegliato a sufficienza il figlio. L’articolo, se lo leggi, è decisamente intersezionale. La seconda, la terza e la quarta immagine sono evidentemente inserite come immagini problematiche, e criticate nel testo, non certo come immagini che esprimono messaggi condivisibili!

  2. slut scrive:

    bitch non è un insulto!
    INTERSEZIONALITà DELLE LOTTE!!!
    levate quel meme è veramente inguardabile!

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