Un racconto di Michele Mari, da “EURIDICE AVEVA UN CANE”, ed. Einaudi
TUTTO IL DOLORE DEL MONDO
Mi stavo allontanando dalla vetrina quando fui colpito da queste parole:
«Va’ Nino, l’è adree a morì: ‘ntremm a dighel».
«’ste curet ti? Andemm, andemm, che l’è tard».
«Ma poer pess…».
Un cappottino nocciola per lei, un lustro giaccone nero per lui: avevano guardato gli animali insieme a me, e ora si dileguavano nella sera. Osservando meglio, vidi ciò che aveva attirato la loro attenzione: un minuscolo pesciolino nero, rimasto impigliato fra il cristallo dell’aquario e una similalga di plastica. L’infelice doveva patire così da molto tempo, perché i suoi sforzi per liberarsi erano deboli e radi: poco più di uno spasmo. Orrore d’aquario, ove l’umana empietà aveva voluto un forzierino semisepolto e (a ballargli avido intorno) un sommozzatore di gomma, trascurando l’ossigenazione e il lindore dovuti.
Sarà stata la sua muta impotenza, la sua invisibile disperazione così in contrasto con la crassità filistea del Natale, ma io in quel pesce vidi compendiarsi tutto il dolore del mondo.
Altre facce si fermarono alla vetrina, attirate dai cagnolini e da un grosso pappagallo verde; se ne andarono, altre facce vennero, se ne andarono anch’esse; «Poer pess» aveva detto quella donna, ma lui l’aveva portata via. Prima che capissi cosa dovevo fare passò altro tempo, poi entrai nel negozio.
«Guardi che nell’aquario c’è un pesce impigliato».
«Eh?»
«E’ rimasto impigliato fra il vetro e un’alga». (Pronunciai l’ultima parola con l’intonazione più concessiva che potei).
«E allora?»
«Soffre».
Mi guardò come si guarda un seccatore, poi continuò a scartabellare in un suo registro. Neanche un cenno, un grugnito che assomigliasse a un ringraziamento, nulla che tradisse un velo di sollecitudine per la creatura. Alla cassa, impassibile, una giovine druda si rintuzzava le pipite: e masticava. Volli credere che avessero litigato aspramente, che io avessi interrotto un lor dramma: e uscii sospendendo il giudizio, studiatamente ignorando lo sdegno che perentro montava.
Mi riappostai alla vetrina, speculando al soccorso. Pur questo tardava, e in un conato estremo di comprensione attribuii quella mora alla grassona che intempestiva frattanto era giunta, intesa all’acquisto di mangime dimolto: e indicava del dito, e colui allineava sul banco e mentalmente sommava, e quella frugava in un suo borsacchione alla cerca del valsente e intanto il pesce era là.
Attesi che la lardona, esauriti i saluti e gli ammicchi, fosse uscita: indi rientrai. Mi accolse uno sguardo sospettoso, aggressivo: cui questa volta partecipò anche la ganza.
«Mi scusi, forse prima non ha capito. C’è un pesce, nel suo aquario, che sta morendo».
«Ho capito ho capito, eccheccacchio ! Quando avrò tempo, ci guarderò».
La masticante sorrise.
«Quando si deciderà, forse sarà già morto».
«E se anche fosse? E’ suo quel pesce?»
«No, ma…».
«E allora guardi, mi faccia un piacere: si faccia gli affari suoi, va bene ? che son qui a lavorare io, mica a divertirmi».
Una furia omicida, tremenda, massacrarlo li, subito, a mani nude, dividerlo brano a brano sul bancone di fòrmica. E ancora una volta, lo sforzo sovrumano per tacitare la bestia ruggente.
«II prezzo».
«Cosa?»
«Lo compro, cosi dovrà toglierlo di li».
Mi scrutò con un ghigno, cercando di capire nel minor tempo possibile se cercassi di ingannarlo o se al contrario si profilasse per lui un insperato guadagno. Pencolava fra questi due estremi, fra la paura e la gioia, non si risolveva. Poi un’ombra gli attraversò lo sguardo, e fu il segno del tertium che vinse: e fu la voglia di non darmela vinta, e fu la soddisfazione di vomitarmi in faccia il suo
«No».
«Come sarebbe no?»
«Non se ne parla nemmeno».
«E’ un negozio di animali questo? I pesci in vetrina sono in vendita? Pago in contanti? Dunque deve vendermelo».
«Mi costringe nessuno, a me: dico bene Sciantàl?
L’acre aura di guerra affinava le mie facoltà d’intuizione, cosi seppi subito come scardinare quel suo soddisfatto arroccamento.
«Glielo compero a qualsiasi prezzo».
Anche un tipo par suo capiva che nella prosodia frastica l’accento batteva tutto su «qualsiasi»: lampi corsero le sue pupille, e Sciantàl, Sciantàl lo fissò immota come il giocatore che attenda trepidando il rilancio o la resa.
«Lei sa di che pesce stiamo parlando?»
«No e non mi interessa. Mi dica solo quanto».
«E’ un ciprinide nero, lei sa quanto è rara ‘sta specie…»
«Ti pareva».
«Guardi, non posso lasciarglielo a meno di… diciamo, uhm… centom… centocinquantamila, eh?», e ammiccò come a dire: vediamo fino a che punto sei fesso.
«Dovrei denunciarla, a cominciare dal fatto che quello non mi pare proprio un ciprinide. Comunque tenga, e che le vada tutto in chimica vana»: e gli allungai le due banconote. Le palpò, le guardò in controluce con ostentata pignoleria, le recò gravemente (a protrarre il trionfo) alla Sciantàl, che palpatele pur’ella le fece sparire nella cassa. Poi, afferrati una reticella e un sacchetto di plastica, si sporse nel vano della vetrina.
«Guardi un po’, sta già meglio» osservò allungandomi il sacchetto pieno d’acqua. Effettivamente, il pesciolino vi guizzava dentro con ritrovata vivacità.
«Il suo cibo glielo vado a comperare dalla concorrenza» ringhiai, e uscii sbattendo la porta. Il mondo, fuori, brulicante di gente in cerca dei regali di Natale, non era meno orrendo di quel negozio. Portai il pesciolino davanti alla vetrina perché salutasse i suoi compagni d’aquario, e li, lì lo rividi, sempre incastrato fra la plastica e il vetro lo rividi alternare la rassegnazione agli spasmi impotenti.
«Ecco perché stavi bene, tu: eri un altro! » dissi al mio pesce, e l’istante dopo ero dentro. Un sovrappiù d’infingardaggine alloschiva i lor volti.
«Razza di manigoldo imbroglione, infame latro latrone! »
«Come come come?»
«Non perdiamo tempo: voglio immediatamente quel pesce».
«Oé oé, piano con gli ordini, neh? Posso mica darcelo, quello».
«E perché?»
«Perché è malato, ecco il perché. C’è una legge, caro lei, che a noi negozianti ci proibisce di venderci la bestia malata, al cliente».
«Non è malato: è sofferente».
«E alòra? A cà mia l’è istess».
Era l’ultimo sbroffo di volgarità che la mia pazienza poteva sopportare. Mi gettai oltre il bancone, lo ghermii al collo ad ambe mani e strinsi, strinsi, strinsi. «A cà toa, eh? – sibilai, – e perché non precisi anche che noi due non abbiamo mai mangiato insieme? perché non parli della professionalità, dell’immagine, perché non dici oggi come oggi, un domani? perché non entri nel discorso roditori?»
La Sciantàl accennò a scivolare giù dallo sgabello.
«Ferma lì spudorata, o sei morta».
Violacea, gonfia, disgustosa a vedersi la faccia del venditore ne diceva la fine imminente: un rantolo secco era adeguato comento.
«Com’è soffocare, eh? dimmi, com’è? Ti piace?».
C’era un fascio di guinzagli, sul banco: scelsi il più crudo e gliel’avvolsi al collo fino a che questo fu tutto una grinza, poi ne fissai la cima a un gancio. Sciantàl era spenta, come invasa di melma.
«Questo lo rimettiamo nell’acqua, ecco, e Sofferenza viene con me: per liberarlo, vedi, spezzo questa oscenissima alga… – la spezzai – poi piano, ecco, fatto».
Cadde nel sacchetto come cosa morta. Fermo così in quella piccola plastica faceva ancora più pena, o miserrima forma della misera vita! «Ach aaach»: il porco cercava di insinuare la punta delle dita nel collare che gli avevo apprestato, ma in questo modo riusciva solo a stringer di più la sua morsa.
«Vuoi una citazione nel tuo idioma diletto? Rànget! » e me ne uscii.
La metropolitana, come sempre, era piena. E quello, che ha da guardare? E questo? E quella? Guardavano il mio pesce, che altro, adagiato sul fondo del sacchetto come una liquerizia sputata.
«Perdoni la domanda, signore, ma lei a Natale ha l’abitudine di regalare, uh, pesciolini morti?»
Sembrava finto, l’importuno, tanto si sostanziava delle peggiori parvenze del nostro tempo: l’abbronzatura proterva, l’orologio non euclideo a colori offensivi, disvarie firme sugli indumenti, la cartellina da pubblicitario, e sottobraccio, sottobraccio un pacco su cui spiccava la sigla aborrita «Hi-Fi» (dunque non t’appagherai di rompere l’anima al prossimo tuo, dunque l’invadenza è a te come un fiato cattivo).
«Prego?»
Strizzò l’occhio alla sua manza, campionario facciale di manteche e pasteche.
«Mi sembra un po’ morto, quel pesce».
Sollevai il sacchetto: Sofferenza aveva tutto, del morto. Gli diedi una scrollatina: rabbrividì un po’, o era solo lo scotimento esteriore ? Attesi che il vagone entrasse in stazione, poi, mentre si aprivano le portiere, sferrai un violentissimo calcio fra le gambe di colui: di punta, a tumefargli per giorni e giorni le coglia e chissà, forse a procurar permanenti lesioni. Fece cadere il pacco, si accasciò senza un lamento mentre in folla ci si accalcava all’uscita. Lo sferragliare del treno non potè coprire del tutto la dolce musica dell’urlo di lei.
Alla luce dei lampioni riguardavo il mio compagno. Perché non si muoveva? Perché, per morire (se era morto), aveva scelto proprio il momento della sua liberazione? Forse per dirmi che non c’è balsamo al male, che immedicabile è il mondo. Vagai, tetro, imboccando le vie con la meccanicità di un automa. La vetrina di un negozio di animali mi risvegliò.
«Sto chiudendo».
«Un momento solo, solo un po’ di cibo per questo pesce».
«Ho già chiuso la cassa, torni domani».
«Lo guardi, la prego, le sembra che possa resistere fino a domani?»
«A me mi sembra morto».
«Come fa a dirlo? L’ha guardato appena! Forse mangiando qualcosa si riprenderà…»
«Senta, l’unico favore che posso farle è buttarglielo nel cesso».
Non so come accadde, fu troppo veloce anche per me: un attimo, e ci ritrovammo nel retrobottega, lui in ginocchio, il busto proteso sul lurido cesso, io sopra, che con le ginocchia lo conculcavo così e con una mano gli premevo la testa nell’acqua, mentre con l’altra azionavo lo scrosciante sciacquone. Blub blub: quando l’acqua si riacchetò, la turbavano solo le bolle del suo respiro.
«Nel cesso eh?»
Blub, blub.
«Oggi imparerai una nuova parola: nemesi. Io adesso ti tiro su, e la prima parola che dirai sarà questa, d’accordo? non altra».
Mollai la pressione sul collo.
«…och …aff …ne …me …si».
«Ecco, bravo, non è difficile. Adesso parliamo di cibo per pesci».
«…ci …bo …si, si».
« Pseudociprinidi ».
Fu colto da un rigurgito d’acqua, poi, barcollando, andò a prendere ciò che volevo.
Appena a casa ho versato dolcemente il contenuto del sacchetto nella mia unica zuppiera, vi ho aggiunto ancora un po’ d’acqua e vi ho stemperato dentro il nutritivo pulvisco. Adesso sono qui in cucina che guardo nella zuppiera in attesa di un movimento, di un segno. Ma ho il sospetto che tutto il dolore del mondo si sia ormai impossessato di me.