Il poeta paragona il proprio spaesamento nella Parigi rifatta da Haussmann a quello di un cigno “evaso dalla gabbia” di un serraglio nel mezzo della città, a quello di Andromaca, prigioniera di guerra dopo il sacco di Troia, a una immigrata di colore ammalata di tisi, a degli orfani, “ai marinai dimenticati su un’isola, /ai vinti, ai prigionieri, a tanti tanti altri ancora”.
Il cigno
a Victor Hugo
Penso a te, Andromaca, quel breve fiume,
povero e triste specchio dove un tempo splendeva
la maestà immensa del tuo dolore di vedova,
quel Simoenta bugiardo gonfio delle tue lacrime,
mi ha fecondato di colpo la fertile memoria
mentre attraversavo il nuovo Carosello.
La vecchia Parigi non c’è più (il volto di una città
muta più in fretta di un cuore mortale),
solo con gli occhi della mente vedo tutto quel campo
di baracche, colonne e capitelli sbozzati
le erbe e i massi verdi d’acqua di pozzanghere,
e dietro le vetrine cianfrusaglie che brillano.
Là c’era un serraglio, un tempo, là vidi,
un mattino nell’ora in cui si desta
sotto i cieli freddi e chiari il Lavoro, o lo spazzino
solleva un muto uragano nell’aria muta,
là vidi un cigno che era evaso dalla gabbia,
sfregare col piede palmato il pavé duro e secco,
trascinando sull’aspro suolo il suo bianco piumaggio.
Accanto a un rigagnolo asciutto la bestia aprendo il becco
bagnava nervosamente le ali nella polvere,
e col cuore pieno del bel lago natale diceva:
“Quando scenderai, pioggia? Quando rimbomberai, folgore?”
Vedo quel mito misero, fatale e strano,
rivolgere come l’uomo di Ovidio verso il cielo
il cielo ironico e spietatamente azzurro,
la testa avida sul suo collo convulso,
come a rivolgendosi a Dio, ad accusarlo.
II
Parigi cambia, ma niente nella mia malinconia
niente cambia, palazzi nuovi, impalcature, massi,
vecchi quartieri, tutto per me diviene allegoria,
pesano più delle rocce i miei ricordi.
Così, davanti a questo Louvre, mi opprime un’immagine:
penso al mio grande cigno, coi suoi gesti folli,
ridicolo e sublime, come gli esuli,
roso da un desiderio senza tregua, penso a te, Andromaca,
caduta dalle braccia di uno sposo magnanimo,
avvilita sotto le mani superbe di Pirro,
la vedova di Ettore e la sposa di Elleno,
nell’estasi chinata sotto un vuoto sepolcro!
E penso alla negra smagrita e tisica,
con l’occhio attonito, scalpicciare nel fango,
cercando assenti d’alberi da cocco dell’Africa Superba,
dietro l’immensa muraglia di nebbia,
A chi ha perduto quello che non si trova mai più,
mai più, a chi beve le lacrime e succhia
e succhia al Dolore come a una buona lupa,
ai magri orfanelli appassiti come fiori!
Così, nella foresta dove si esilia il mio spirito
un vecchio ricordo suona a perdifiato il corno.
E penso ai marinai dimenticati su un’isola,
ai vinti, ai prigionieri, a tanti tanti altri ancora.
Charles Baudelaire
(Traduzione di Roberto Mussapi)