L’articolo del giornale è, a suo modo, interessante. Offre – “pacatamente” (almeno in superficie) – la chiave di lettura di chi, allevato a sua volta come unità produttiva, rimane incredulo innanzi alla compassione.
Certezze che scricchiolano. Assurdamente, i toni di chi lotta per Bruno appaiono “eccessivi”, mentre quelli degli allevatori “pacati”. Viene riportato il discorso della veterinaria (persona che, in virtù del lavoro che svolge, si pensa – piace, ed in questo caso è utile, pensarlo – debba avere a cuore la sorte degli animali non umani): “se si risparmiassero tutti gli animali, gli allevatori non sarebbero tutelati. Anzi, sarebbero costretti a chiudere bottega. Dietro quel toro, in fondo, c’è un’attività imprenditoriale e una filiera alimentare”. La veterinaria ha un ruolo importante in questa pièce (peccato si tratti di tragica, palpabile se solo si avesse il coraggio di smuovere il corpo dal torpore, realtà), rappresenta l’istituzione che gode del diritto – in nome di molti? – di “sbottare”.
Nel mentre c’è Bruno (“gli hanno affibbiato pure un nome” scrive la giornalista) che, con la sua fuga, il suo punto di vista l’ha già espresso chiaramente. Riacciuffandolo e riportandolo nella (sicura?) stalla – “L’animale non è pericoloso, sta bene, ora è nella stalla. Ha patito queste giornate” spiegano con toni pacati dalla cooperativa – lo stato delle cose è ripristinato.
Ma Bruno ci chiede ancora di interrogarci – a dargli man forte “gli animalisti”, i folli – e in ballo si sa, non c’è solo la sua sorte (come se da sola non bastasse), ma l’intero sistema.
Bruno ha infranto, con il suo balzo e fuggendo via, quella barriera che si vuole immediatamente ripristinare.
Bruno è indubbiamente pericoloso. I suoi desideri e la sua volontà sono pericolosi.