“Una crepa nell’edificio zootecnico” – intervista a Benedetta Piazzesi

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Benedetta Piazzesi è laureata in filosofia e dottoranda in Philosophy, Science, Cognition and Semiotics presso l’Università di Bologna. Promuove una prospettiva liberazionista per l’antispecismo e il movimento animalista, che includa umani e non umani in un medesimo progetto di liberazione antiautoritaria, ed è redattrice della rivista di critica antispecista Liberazioni. L’abbiamo intervistata a proposito del suo recente libro, Così perfetti e utili. Genealogia dello sfruttamento animale (Mimesis 2015).

Il tuo libro parte dichiaratamente da una prospettiva foucaultiana. Si tratta di un approccio sostanzialmente inedito, almeno in Italia, nell’ambito degli Animal Studies. In particolare, sembra che una prospettiva storica sia proprio il grande assente nell’analisi antispecista. Si tratta di questo che manca? Che cosa dovremmo recuperare di Foucault, a tuo avviso, per decostruire l’antropocentrismo e combattere lo sfruttamento animale?

Credo che quello che manca ad un’analisi che sia politica e non meramente accademica non è tanto la ricostruzione storica in sé delle istituzioni di utilizzo animale. Credo che ciò con cui è indispensabile si confronti il movimento per la liberazione animale è il fatto della trasformazione del potere.

La considerazione più basilare in questo senso è che, mentre abbiamo – più o meno – imparato a riconoscere la natura storica di altri tipi di ingiustizia sociale, il senso comune vuole che gli animali siano dall’origine dei tempi stati utilizzati dall’essere umano. Comunemente questa idea ha una funzione naturalizzante e quindi implicitamente prescrittiva, della serie “siccome è sempre stato così, è giusto e inevitabile che così sia”. Se il senso stesso dell’esistenza di un pensiero antispecista è mettere in discussione questo assioma, può essere politicamente interessante per il movimento confrontarsi con forme storicamente (o anche geograficamente/culturalmente) differenti di potere, che ci mettono in condizione di abbandonare un’idea monista del potere, che lo vuole consistente in una serie di comportamenti (prevaricazione, violenza, abuso, repressione) la cui modulazione è sostanzialmente quantitativa. Sarebbe utile invece comprendere che non si contrappongono società in cui il potere è più forte ad altre in cui il potere cede alla libertà. Il potere non è il quantum negativo-repressivo presente in ogni società, bensì la rete che tiene insieme viventi, cose e ambiente. Ci vuole la storia, e un certo tipo di storiografia, di cui a mio parere Foucault è stato un grande maestro, per imparare a sospendere il giudizio sul potere, cosa che sola ti permette di riconoscerlo anche laddove sembra completamente trasformato.

Come tu stessa segnali, non è possibile trasporre l’analisi foucaultiana alla questione animale senza le dovute cautele. A proposito della normalizzazione dei non umani, parli di “normalizzazione muta”. In che senso? E in che senso entra in gioco l’etologia?

È un fatto, e un suo grande merito, che Foucault abbia dedicato tanta parte delle sue ricerche alla questione della soggettivazione come altra faccia dell’assoggettamento. Con questo concetto egli intende sottolineare la natura sovente positiva e pedagogica del potere: i modi in cui non solo reprime o nega la nostra volontà (assoggettamento), ma anche la crea e indirizza (soggettivazione). In questo senso dobbiamo riconoscere la, almeno parziale, insondabilità del potere: in un gioco di specchi tra esterno ed interno il soggetto costruisce se stesso, negoziando la propria misura di autodeterminazione e di assoggettamento. Inevitabilmente questo intimo e ambivalente dinamismo del potere esercita un grande fascino: il potere è tanto quello che su di noi è esercitato dall’esterno quanto quello che siamo noi ad esercitare su noi stessi.

La difficoltà di applicare questi strumenti alla questione animale non consiste nell’assenza di tecniche di soggettivazione negli animali non umani. Credo anzi che ogni individuo metta in atto strategie di individuazione e che contribuisca alla costruzione del proprio particolare modo di stare nel mondo. La difficoltà è piuttosto tutta nostra, e sta nella ricostruzione che ci è concessa di questi dinamismi interno/esterno.

Credo che il problema sia riconducibile al logocentrismo epistemologico cui è difficile, per noi umani, soprattutto per chi come me è cresciuta nella cultura occidentale, anche solo immaginare un’alternativa. Se riusciamo infatti a comprendere il funzionamento corporeo delle pratiche di assoggettamento (e quindi non facciamo fatica a riconoscerle quando sono esercitate sui non umani), meno facile ci risulta riconoscere tecniche di soggettivazione al di fuori del piano discorsivo: è come se implicitamente credessimo di costruire la nostra identità scrivendo la nostra autobiografia, insomma formulando dei concetti su noi stessi. C’è una parte di verità: le parole esercitano un grande potere su di noi, e noi stessi esercitiamo il potere sugli altri e su noi stessi tramite esse. Ma non è solo verbale il linguaggio dell’interiorità.

Il concetto sociologico di habitus in questo senso è rivoluzionario: attraverso le pratiche incorporiamo l’episteme, che sarebbe a dire l’insieme delle conoscenze e delle informazioni normative di un determinato contesto sociale. La riproduzione/trasformazione delle quali è continuamente negoziata nel momento in cui sono interiorizzate e riproposte dal soggetto. In questo senso dovrebbe essere chiaro quanto le nostre stesse forme di soggettivazione si muovano su piani molteplici e più complessi di quello meramente linguistico. E come perciò anche gli animali non umani partecipino di questo complesso dinamismo del potere, giocato tra dentro e fuori, tra assoggettamento e soggettivazione.

L’etologia è proprio il contenitore scientifico che segnala l’affioramento di questo tipo di consapevolezza. Lo studio del comportamento e dell’apprendimento testimonia l’avvenuto riconoscimento di questa dimensione psichica attiva nell’animale non umano, che non è più solo macchina o puro istinto. Ma il discorso scientifico è anche quasi subito tecnico, nel senso che le conoscenze sancite dall’istituzione scientifica sono presto funzionalizzate all’uso delle risorse. In questo senso l’etologia ha avuto un ruolo nel governo dei viventi ed è entrata nel patrimonio di conoscenze indispensabili per l’allevatore: che deve imparare a comprendere non solo i corpi ma anche le anime degli esemplari che tratta.

“Là dove c’è potere c’è resistenza”. Partendo da questa espressione di Foucault, la tua storia dell’emergere della zootecnia moderna rifiuta di accordare agli animali un ruolo meramente passivo. La resistenza degli animali, come affermi, non si vede soltanto nelle evasioni, nelle ribellioni continue, ma anche in altri comportamenti meno evidenti, come i movimenti stereotipati, le grida, ecc. E, soprattutto, la definisci come “una crepa (strana crepa, perché costitutiva) nell’edificio zootecnico”, un edificio che ha costituito le proprie tecniche di contenzione, controllo, irregimentazione in risposta a tale resistenza. Nel libro, però, questo fattore non sembra emergere quanto altri fattori centrali nella storia della zootecnia. E’ difficile scrivere la storia della resistenza animale?

Insieme a quello di habitus, un altro dei concetti più interessanti mutuabili dagli studi socio-antropologici è quello di agency. La sociologia e l’antropologia, che si fanno carico di uno sguardo molto ravvicinato e partecipativo sulla realtà, non trascurano di rilevare il ruolo attivo dei soggetti, fossero anche i più marginali, nei processi di potere che li coinvolgono. Ciò non significa misconoscere le responsabilità evidenti, che siano quelle nei processi di colonizzazione, nelle relazioni di genere o nei rapporti interspecifici. Essere disposti a riconoscere gli spazi di libertà e scelta in cui i soggetti negoziano i termini della propria condizione, esprimono la propria volontà o addirittura condizionano a loro volta il potere cui sono sottoposti, ci abilita ad uno sguardo più completo sulla natura del potere e sul suo funzionamento. Uno sguardo anti-paternalistico di questo tipo apporta un grande beneficio politico e strategico, perché permette di rimpiazzare piano piano una visione universalistica e autoreferenziale della giustizia (che ha tutti i connotati culturali, politici e morali della tradizione prima cristiana e poi illuministica di cui siamo imbevuti) con la molteplicità situata delle voci dei diretti interessati.

Nel caso degli animali da reddito, si sa, riconoscere questa agency è particolarmente antintuitivo: da un lato perché essi sono assoggettati nei modi più brutali possibili, dall’altro perché i loro linguaggi, poiché non verbali, possono risultare incomprensibili. Eppure se cominciamo a concepire il potere come una relazione vediamo secondo una nuova luce la storia dell’istituzione zootecnica stessa. Fondamentalmente ogni strumento utilizzato dall’allevatore altro non è che un dispositivo resosi necessario a causa della radicale indocilità animale, della indisponibilità dei soggetti a farsi sfruttare. La gabbia, che è il dispositivo elementare e simbolico dell’architettura zootecnica, è congegnata perché l’allevatore sa benissimo che l’animale non rimarrebbe lì dove lui lo vuole.

Una storia della zootecnia come apparato reattivo alla resistenza animale è un’idea cui alludono anche altri studiosi dei critical animal studies, ma che richiede una sintesi tra profonda indagine delle fonti storiche e precise conoscenze etologiche.

… e poi parli di r-esistenza

Il concetto di resistenza è in effetti filosoficamente più radicale di quello di ribellione. Riguarda l’esistenza nel suo fondamento, e riguarda inevitabilmente i corpi. Su di un piano molto fisico e radicale, per l’appunto, i corpi oppongono continuamente la propria esistenza alla pressione/potere del mondo. Su ogni corpo si posa il peso del mondo, che è retto e respinto da queste fragili carni. Nel suo stesso esserci il corpo resiste al potere, e lo fa nello stesso istante in cui gli offre appoggio e presa.

In più credo che questa consustanzialità di potere e resistenza dica qualcosa sulla natura del potere. In che senso infatti la controforza del corpo è un tipo di resistenza? Il potere può forse volere annullare i corpi che spinge e stringe? Non può, non lo ha mai voluto del tutto, neanche nelle sue forme più repressive. Il potere ha bisogno dei corpi, della loro consistenza e della loro controforza. Ed è per questo che si può dire, come si diceva prima, che la resistenza è sempre una strana sorta di crepa, una crepa costitutiva, nell’edificio del potere.

Hai individuato nella stabulazione una tecnica fondamentale per lo sviluppo della biopolitica, al di là del caso degli animali. In realtà, il fatto che questa tecnica fosse già sviluppata, insieme ad altre, all’interno del vecchio modello della Villa cinquecentesca, smentisce l’idea che abbiamo di un antico potere sovrano («lasciar vivere e far morire», secondo la formulazione foucaultiana) sugli animali: la zootecnia “dei tempi andati” era già più complessa nella sua gestione dei corpi? Si trattava di una sorta di avanguardia, a confronto con gli altri istituti disciplinari?

Ho il dubbio che l’antico paradigma “lasciar vivere e far morire” non sia mai stato veramente azzeccato neanche per le società umane antiche e medievali. Piuttosto il diagramma foucaultiano è utile per contrarietà, per capire su quale asse si sviluppi il potere della modernità: verso la gestione della vita piuttosto che l’annullamento nella morte. Ma credo che quella di cui stiamo parlando sia addirittura la svolta originaria del potere, quella che Elias Canetti definisce la trasformazione della forza in potere.

Premesso questo, quello che si può dire è che la storia dell’utilizzo degli animali ha reso più macroscopico e intellegibile il progetto bio-politico insito nel potere ben prima degli istituti disciplinari ottocenteschi.

E, se si guarda a Pasteur – ma anche a Darwin -, gli allevamenti hanno svolto anche un importante ruolo di “laboratorio scientifico”…

Questa precoce comparsa di un potere di vita oltreché di morte mostra un apparato zootecnico che si fa campo di prova delle tecniche e dei saperi della gestione biologica dei viventi. Passa dalla zootecnia lo sviluppo di un sapere scientifico che descriva il funzionamento dei corpi viventi, sapere sul quale si innesta quello medico.

È al regime stabulare dell’allevamento che molti scienziati hanno attinto materia di studio, come nel caso di Ruini, Redi, Pasteur, Darwin. La struttura zootecnica si configura infatti soprattutto a partire dal XVIII secolo come dispositivo di normalizzazione profonda, e in questo senso conditio sine qua non per una rigorosa adozione dei parametri scientifici di esperimento anche da parte delle scienze biologiche. L’intrinseca natura ermetica del regime di stabulazione continua, sommata ai nuovi valori che esso acquisisce col processo di razionalizzazione operato dall’industrializzazione, rende l’allevamento un buon prototipo di laboratorio moderno.

… tutto questo ben prima che esistesse il termine “zootecnia”.

La questione terminologica è piuttosto interessante nel momento in cui si pensa alla zootecnia come una delle discipline emergenti nell’Ottocento. Il fatto che il termine zootecnia sia stato coniato solo nel 1843 fa capire una volta in più che non si è sempre avuto a che fare con lo stesso potere dell’uomo sugli animali, ma che, ad esempio, esso acquisisce nuove regole e una nuova legittimazione nel XIX secolo soprattutto a causa della sua autoproclamazione scientifica e del rapporto di parentela che stringe la zootecnia alle altre discipline naturali.

Lo “specismo” emerge, nel tuo libro, come categoria problematica, in controtendenza rispetto alla vulgata antispecista. In che senso?

Quello di specismo è forse un termine utile per semplificare la complessa fenomenologia dell’atteggiamento nei confronti degli animali nella nostra società. Credo anche però che rischi di diventare un concetto feticcio. Tendiamo a rubricare tutta l’ingiustizia che è perpetrata sugli animali sotto l’idea del pregiudizio discriminatorio sulla base dell’appartenenza di specie. Se questa analisi rispecchia in parte la realtà denunciando quelle categorie teologico-politiche di vecchia data che improntano la nostra concezione degli animali non umani, essa pecca forse di idealismo: ci fa credere che la prassi derivi dal pensiero piuttosto che il contrario.

A proposito di Darwin. La tua lettura della rivoluzione evoluzionista è diversa dalla “classica” lettura antispecista che vede in Darwin colui che ha scardinato l’antropocentrismo insito nella precedente concezione del mondo.

La questione del darwinismo è piuttosto complessa. Non si tratta di mettere in discussione la portata rivoluzionaria di una concezione che costruisce nuovi legami di parentela per l’umano, e lo restituisce senza dispetto o dispregio alla famiglia animale. Si tratta piuttosto di ricostruire l’immagine a tutto tondo del paradigma evoluzionistico che a metà Ottocento s’impone e che costituisce, più del Cristianesimo, la nostra formazione fondamentale, quella che sorbiamo passivamente fin dalla scuola primaria e che quindi accettiamo acriticamente. In questo senso è utile adottare uno sguardo straniante – o se si vuole etnografico – proprio su quelle concezioni della contemporaneità che crediamo più intoccabili, anche perché le troviamo più progressive.

Allora osservare il darwinismo a 360° ci permetterà di capire che la specie umana viene reinscritta nel continuum animale, ma che ciò non contiene necessariamente le implicazioni etiche ed ecologiche che siamo soliti attribuire a questo fenomeno. L’idea della manipolabilità è in effetti al nucleo del darwinismo almeno tanto quanto l’idea del continuum zoologico, ed è anzi ad essa strettamente collegata. La grande intuizione evoluzionista che vede nei viventi non delle creature che attraversano i secoli immutate e che giungono a noi direttamente dal progetto divino, bensì degli artefatti, prodotto della storia naturale, è effettivamente frutto dell’osservazione zootecnica, ed è Darwin stesso a confessarlo. Dopo aver visto come l’allevatore può trasformare e rendere migliore i propri esemplari, lo scienziato può ipotizzare che la natura faccia la stessa cosa migliorando le specie. La continuità ammessa da Darwin tra umani e altri animali gli serve, casomai, per suggerire la manipolabilità e perfettibilità del patrimonio genetico umano.

La nascita dei movimenti protezionisti ottocenteschi, tradizionalmente interpretata come sintomo di una rinnovata sensibilità nei confronti degli animali, viene da te descritta come un fenomeno funzionale al passaggio verso l’allevamento intensivo, che necessita l’abbandono di quelle forme di violenza che rallentano la produzione direttamente o indirettamente (diminuendo le vendite in un contesto in cui la nuova figura del “consumatore” è “artefice della domanda”). Sembra però che questo movimento verso uno sfruttamento più “umano” (cioè, in realtà, più efficiente), si differenzi non poco da quello che avviene nel secolo successivo e al giorno d’oggi, con il paradigma della “carne felice”, sostenibile, delle produzioni a certificazione biologica, del benessere animale (www.bioviolenza.blogspot.it). In che cosa rilevi continuità e in che cosa discontinuità, fra queste due ondate di rinnovamento della zootecnia?


Non è preciso dire che i movimenti protezionisti ottocenteschi sono stati funzionali al nuovo tipo di allevamento intensivo. Credo che in qualche modo sia i movimenti sociali che l’istituzione zootecnica abbiano negoziato una forma di convivenza. I movimenti protezionisti mettevano effettivamente in discussione la cosiddetta brutalità nei confronti degli animali, e soprattutto l’idea della violenza gratuita. Non c’è bisogno di scomodare la cattiva fede, anche se può essere utile capire la genealogia di questa aspirazione nel nascente ethos borghese. Non potevano però cogliere al cuore l’istituzione zootecnica del loro tempo, che nell’Ottocento si stava già decisamente muovendo verso un modello di ottimizzazione dei processi produttivi che non lasciava spazio alla gratuità, neanche a quella del sadismo. In questo senso si può forse dire che l’aspirazione protezionista sia stata rifunzionalizzata da un contesto zootecnico pronto a normalizzare (nel senso di standardizzare), normativizzare (nel senso di dispiegare un apparato legislativo) e moralizzare (creando un nuovo codice di legittimazione) se stesso.

Similmente la zootecnia sembra oggi pronta a risignificare certe idee animaliste. L’idea della sofferenza animale, di chiara matrice critica, viene ammessa ma rielaborata e rifunzionalizzata dall’allevamento biologico: ne scaturisce una complessa fenomenologia psicosomatica che permette una traducibilità biunivoca tra i segni del corpo e i moti dell’anima, che è assolutamente funzionale a fornire al consumatore attento un prodotto di miglior qualità perché più scientifico, visto che non trascura neppure l’impatto dello stress sulla consistenza della carne.

In questo senso non credo che il problema sia nella retorica animalista che parla di sofferenza e benessere, né in quella protezionista che parlava di violenza gratuita. Questo potere relazionale di cui è interprete anche l’istituzione zootecnica non smetterà di rispondere alla resistenza che viene dagli animali o dagli animalisti. Ciò in cui può aiutarci la storia è però riconoscere tempestivamente queste metamorfosi del potere, e delineare di conseguenza analisi politiche buone per il presente e l’immediato futuro.

intervista a cura di Resistenza Animale

www.resistenzanimale.noblogs.org

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