La notizia riporta di un dramma avvenuto a Iseo.
Un umano anziano residente in zona si è appostato in attesa di un giovane cinghiale che, alla ricerca di cibo, era solito entrare nel terreno adiacente alla sua abitazione. Non appena si è avvicinato l’umano non ha esitato a fare fuoco colpendolo in pieno. Il cinghiale, però, in preda al dolore e alla disperazione, prima di morire, si è lanciato alla carica e, a sua volta, ha travolto l’umano che, ferito, è poi morto dissanguato.
Il breve articolo ci rivela anche che l’anziano signore “era esasperato dalle incursioni dell’animale sul suo terreno”.
Quello che colpisce è il maldestro tentativo di fornire una giusta motivazione per l’appostamento e l’uccisione di un individuo che cercava di sfamarsi. Quello che colpisce è “quell’esasperazione” che trascina puntualmente degli individui di una specie ad imbracciare un fucile e uccidere senza arrivare a chiedersi davvero il perché si stia ricorrendo ad una soluzione così violenta, pericolosa, drastica, dolorosa, irreparabile.
Soprattutto, quando si parla e si scrive sulla necessità di difendere il proprio terreno dai cinghiali, quello che colpisce è la totale mancanza di consapevolezza rispetto all’origine del problema, rispetto all’immensa disparità delle forze in campo.
L’origine del problema, in realtà, è l’immissione massiccia di cinghiali nei boschi a scopi venatori. In altre parole i cinghiali sono tanti perché sono state immesse specie non autoctone molto più prolifiche. E lo scopo, naturalmente, era quello di avere tanti cinghiali per potersi divertire con i fucili.
La vita dei cinghiali, animali molto schivi che preferiscono muoversi dopo il crepuscolo, in questo contesto, diviene sempre più difficile. La sopravvivenza, garantita dalla libertà di movimento, dall’ampiezza del territorio, dalla disponibilità di cibo, si trasforma nella perenne fuga di individui braccati, terrorizzati, spesso feriti e costretti ad abbandonare i piccoli. Individui disturbati e spaventati dai rumori e dalle devastazioni, costretti ad attraversare strade con il rischio continuo di essere investiti.
Il bosco, il luogo del selvatico, lo spazio vitale di tutti gli animali liberi, è stato colonizzato e, sempre meno, rappresenta un rifugio sufficientemente sicuro dal dominio antropocentrico.
Lo spazio vitale e il cibo disponibile, infatti, non sono mai abbastanza e, anche per questo, i cinghiali (e non sono loro) sono spesso costretti ad uscire allo scoperto.
Se poi consideriamo che anche la nostra agricoltura si appropria di tutto il territorio, di tutte le risorse, di tutta l’acqua e considera dei nemici da abbattere tutti gli individui che, in qualunque modo, reclamano il diritto a quegli spazi, a quelle risorse, a quell’acqua, possiamo cominciare a delineare il dramma degli animali selvatici. Minacciati, braccati, terrorizzati, sospinti e allontanati sempre di più, verso spazi che diminuiscono a vista d’occhio.
In un tale contesto, tra caccia, agricoltura totalitaria, trappole, bocconi avvelenati, strade e autostrade, alte velocità, pale eoliche, ripetitori ed elettrodotti appare sempre più evidente l’immensa disparità delle forze in campo. Appare sempre più evidente come l’esasperazione si trasformi in odio nei confronti di qualunque forma di esistenza estranea a tutto questo meccanismo perverso di dominio incontrastato. Appare sempre più evidente l’immenso e drammatico senso di ridicolo che dovremmo provare di fronte a chi evoca la necessità di difendersi dai cinghiali, come da qualunque altro animale selvatico che, ancora, cocciuto e clandestino, si ostina a cercare spiragli di sopravvivenza in una matrice sempre più squadrata, trasformata, addomesticata.
E sì! Anche quella dei cinghiali è Resistenza Animale. Una resistenza che dovremmo cercare di sostenere arretrando di parecchi passi: sul territorio, sulle proprietà, sulla nostra posizione di dominio e di controllo, sabotando l’appiattimento di una mentalità fondata sul fucile e lo sterminio, sulla vendetta e sulla morte.
Perché quello di Iseo è un dramma di cui nessuno dovrebbe rallegrarsi, in nessun modo.
Abbiamo bisogno, più che altro, di un nuovo atteggiamento che ci permetta di non considerare più le impronte, le buche e le zolle ribaltate, qualche frutto prelevato o qualche campo calpestato solo dei danni. Sono le tracce di altri animali che, a differenza delle nostre spesso davvero dannose e devastanti, segnalano semplicemente il loro modo di stare al mondo. Avremmo bisogno di un nuovo atteggiamento che implichi anche il “lasciar correre”, lasciar passare, lasciar entrare, lasciar uscire, lasciar sostare. Perchè è proprio questo “lasciar correre” che consentirà leggerezza e distacco, che consentirà a tutti di vivere e correre. Un “lasciar correre” che è l’unica opportunità di liberazione. Anche per noi, che siamo animali tra tante popolazioni di animali.
Troglodita Tribe
(Fonte www.brescia.corriete.it )