La resistenza viene prima – gli animali di Michael Hardt

da: alfabeta2 – speciale “I non umani”

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La resistenza viene prima. Gli animali di Michael Hardt

Marco Reggio

La questione animale è stata a lungo ignorata o liquidata con sufficienza dai movimenti e dal pensiero critico. Esclusa a vario titolo dall’ambito del politico, ha scontato la sua giovane età, le molte ingenuità con cui si è presentata nel discorso pubblico e, soprattutto, il suo carattere sfuggente. Questo oscuro oggetto (di quale desiderio, poi?) ha infatti preso le forme, via via, di un’istanza morale contro la violenza sui non umani, di una denuncia del sistema di sfruttamento materiale di miliardi di corpi nei mattatoi o negli allevamenti, di una critica al pregiudizio di specie, di una ricerca di nuove forme di relazione fra umani e animali, di un contributo (scomodo) alla critica anticapitalista, all’analisi della bio-tanato-politica o allo smantellamento dei binarismi gerarchizzanti. Il marxismo, in particolare, ha storicamente mostrato ben poca simpatia per chi parlava di quei soggetti che, peraltro, hanno contribuito massicciamente, con i propri corpi, il proprio lavoro e le proprie funzioni riproduttive, alla nascita del capitalismo – un fatto, questo, tradito dalla stessa etimologia della parola (da caput, capo di bestiame). Sembra tuttavia che qualcosa sia cambiato, ed oggi anche la critica di derivazione marxista non può ignorare lo sfruttamento animale e le relative lotte di liberazione.

Quello che può emergere da tale incontro fra antispecismo e marxismo (o, meglio, fra alcuni antispecismi e alcuni marxismi) è il tema di un libro a sei mani uscito in questi giorni per i tipi di Mimesis. Massimo Filippi, Michael Hardt e Marco Maurizi, autori di Altre specie di politica, si interrogano, in fondo, proprio su una serie di questioni che iniziano finalmente ad essere intelligibili: in che modo affiora la soggettività animale quando la critica dell’esistente attinge alle categorie marxiane, foucaultiane e deleuziane, come nel caso dell’opera di Michael Hardt e Antonio Negri? A quali condizioni è possibile parlare dei non umani facendo politica? E quali prospettive si aprono, di rimando, nei Critical Animal Studies e nei movimenti antispecisti?

Il libro ruota intorno all’intervista di Filippi a Hardt, un’interpellazione il cui senso viene evocato dallo stesso Filippi nel suo contributo introduttivo, laddove si rintracciano le presenze animali nei lavori di Hardt e Negri, dalla talpa marxiana ai serpenti di Impero, fino ai millepiedi di Comune. Presenze (apparentemente) metaforiche che suggeriscono come alcuni concetti portanti siano impensabili senza il riferimento all’alterità non umana, e senza una solida postura consapevolmente anti-umanista. Come nota Maurizi nel suo saggio conclusivo, infatti, «ciò che oggi ci troviamo a fronteggiare come potenza pervasiva del capitale […] non è qualcosa di “umano” e non va dunque né pensato, né giudicato, né superato attraverso il ricorso a categorie che fanno dell’umano il proprio centro». Alcune delle implicazioni più significative per un pensiero antispecista maturo erano del resto già prefigurate in Impero: Spinoza «rifiutava di attribuire alla natura umana una legge diversa dalle leggi che riguardano la totalità della natura. Ai giorni nostri, Donna Haraway porta avanti il progetto di Spinoza nel momento in cui insiste sulla necessità di abbattere le barriere che abbiamo eretto tra l’umano, l’animale e la macchina. Se intendiamo separare l’uomo dalla natura, l’uomo non esiste».

La metafora, diffusa forma di utilizzo simbolico di un soggetto che, mentre lo nomina contribuisce ad invisibilizzarlo e reificarlo, a farne cioè un referente assente1, cede qui il posto agli animali come «aiutanti», come dice Filippi. Se l’affiorare di talpe, serpenti e millepiedi è l’affiorare di un sintomo, si tratta di un sintomo che «è giunto […] al suo punto di massima incandescenza», non più «qualcosa da addomesticare ma piuttosto un varco, una frattura, una singolarità spazio-temporale che dischiude nuove possibilità, forme altre di potenza». Diventa per esempio lecito chiedersi, in modo molto esplicito: «dove comincia e dove finisce la moltitudine? La moltitudine è sinonimo di umano o è qualcosa che la eccede?».

Nell’intervista, è proprio questa eccedenza a trovare una formulazione consapevole, questa volta da parte di Hardt, con riferimento alle figure di Spinoza e di Francesco d’Assisi. Ma è anche qui che, accanto alla ritrovata dignità dei movimenti per i diritti o per la liberazione animale, emergono una serie di domande le cui risposte non potranno che essere frutto di una nuova stagione di lotte e di studi. A partire dall’impossibilità di usare le categorie politiche costruite in ambito esclusivamente umano per far fronte alle sfide tu dai soggetti animali. Tali categorie dovranno essere ripensate: il problema, per esempio, non sarà solo quello di allargare l’idea di moltitudine agli individui di altre specie, ma di chiedersi come diventa la moltitudine quando è “più che umana”. Per usare le parole dello stesso Hardt, dovremmo «valutare se i principi dell’azione politica sviluppati sulla base delle differenze tra umani siano in grado di operare nell’ambito della politica delle differenze tra umani e non umani. O forse […] dovremmo domandarci se non siano gli stessi principi politici che vadano ripensati». Ed è anche possibile che la tenuta di alcune di queste categorie debba essere verificata: il comune, il lavoro immateriale, la resistenza. Su quest’ultimo punto, Hardt coglie acutamente come la resistenza, che ha caratterizzato tanto l’approccio foucaultiano al potere quanto la svolta operaista, sia in grado di scompaginare le narrazioni e le prassi antispeciste.

Gli animali si ribellano, individualmente e in gruppi, quotidianamente; disobbediscono, boicottano apparecchi, procedure e compiti assegnati; esprimono dissenso, chiedono aiuto, muovono alla solidarietà; negoziano le condizioni del proprio sfruttamento; costringono le tecniche che articolano la presa sui loro corpi a contrattaccare, ad affinarsi; aggrediscono i domatori nei circhi, oppongono i propri corpi alla violenza del mattatoio, evadono dai recinti. Tutto ciò non sfugge, da qualche anno a questa parte, agli/lle attivist* per la liberazione animale. Si diffonde un certo disagio, infatti, per il tradizionale paternalismo animalista che parla di vittime inermi, soggetti passivi, che proclama l’eroico altruismo di chi leva “la voce dei senza voce”. In Italia, la documentazione della resistenza animale è la modalità principale in cui si esprime il desiderio di una svolta2: mostrare le ribellioni – generalmente sottaciute, ignorate, minimizzate o riportate in modo aneddotico e folkloristico dai media – per cambiare la postura del soggetto umano, non più benefattore che elargisce compassione o diritti dall’alto, ma soggetto solidale che si pone al fianco dei soggetti in lotta. Negli U.S.A., alcune campagne sono nate da lotte condotte da animali prigionieri; il tema è stato oggetto di pubblicazioni con una buona diffusione3, ed è al centro di un dibattito piuttosto articolato fra studiosi della questione animale4.

Hardt coglie in pieno il portato di questa svolta («sì all’articolazione delle diverse lotte per la liberazione e sì alla lotta a fianco degli altri, ma no a ogni rivendicazione che pretende di lottare a nome di altri o per gli altri») e suggerisce l’utilizzo di strumenti ancora inesplorati nello studio dell’agency non umana. Come mostra Maurizi, infatti, i principali contributi dell’operaismo italiano sono perfettamente in sintonia con l’esigenza di restituire centralità alla resistenza animale. «Uno degli aspetti centrali che il pensiero operaista ha lasciato in eredità alle riflessioni di Hardt e Negri è l’inversione del rapporto fra dominante e dominato come è classicamente formulato nella teoria di Marx […]. Negli anni ’60 l’operaismo ha teorizzato il ruolo essenzialmente attivo della classe operaia nella costruzione del rapporto capitalistico. È l’antagonismo di classe, che vede i lavoratori sfruttati come soggetto dinamico e creativo, a precedere storicamente e logicamente; dunque a produrre i movimenti reattivi, trasformativi e progressivi del capitale». Nelle parole degli stessi Hardt e Negri (Impero): «È il proletariato che inventa le forme produttive e sociali che il capitale sarà costretto ad adottare in futuro».

Un cambio di paradigma, dunque. Nel campo dei Critical Animal Studies italiani si tratta di una visione finora proposta attraverso il prisma foucaultiano, con risultati peraltro molto promettenti, come nel caso dello studio della zootecnia moderna intrapreso da Benedetta Piazzesi che muove proprio dall’idea che le tecnologie di controllo e messa a valore dei corpi animali costituiscano una risposta incessante alla loro capacità di eccedere i dispositivi di irreggimentazione5. Ad ogni modo, che lo si veda dal punto di vista operaista o da quello di matrice foucaultiana, tale approccio apre forse più interrogativi di quanti ne “risolva”6. Come è possibile – chiede Hardt – prendere parola per dei soggetti a noi in fondo opachi? D’altra parte, è lecito domandarsi, con Slavoj Žižek (citato da Filippi nel suo saggio), se la regola aurea di non parlare per altri non possa ridursi a un pretesto per esercitare un cinismo insopportabile nei confronti di diversi soggetti impossibilitati a organizzare la propria difesa in un contesto sfavorevole, come gli ebrei nei campi di concentramento, i malati mentali, i bambini e, appunto, gli animali. Hardt suggerisce, proponendo una lettura inedita delle lotte per la liberazione animale, che la condizione degli/lle antispecist* sia analoga a quella degli israeliani solidali con la popolazione palestinese, per i quali unirsi alla lotta palestinese significa prima di tutto rivendicare il «diritto a non essere un persecutore».

Altre aporie emergono ad ogni passo in questo territorio inesplorato. Come conciliare la necessità, espressa da Hardt, di sviluppare relazioni fra umani e non umani, se non siamo neppure in grado di comprendere che cosa desidera davvero un animale7? E, se è giunto in effetti il momento di chiederci, con Filippi, «se gli animali non possano rientrare a pieno titolo nella composizione del “nuovo” proletariato», a che condizione potranno esserne parte, dal momento che questo soggetto è concettualizzato proprio a partire dalla messa a valore delle componenti affettive e immateriali della vita? Andrà rivista radicalmente la narrazione di un impero fondato sul general intellect e sull’uscita di scena del potere sovrano, o dovremo piuttosto avviare una riflessione, in primis come antispecisti, su come si esercita il potere pastorale negli allevamenti o su come si mettano in circolo le capacità relazionali dei non umani (si pensi ai pet, gli animali “d’affezione”)? O, ancora: come cambia la nozione stessa di “resistenza” quando la si riconosce in soggetti che la agiscono senza un’intenzionalità e una consapevolezza politica simili all’intenzionalità e alla consapevolezza che siamo abituati a riconoscere in noi stess*? Che sorta di agency è quella dei folli, dei bambini e delle bambine, degli animali in gabbia?

Non si tratta, evidentemente, di domande semplici. Ma, forse, intrapresa questa strada sarebbe ancora più difficile (e triste) tornare sui propri passi come se nulla fosse accaduto.

 


NOTE

 

1. Il concetto di referente assente è stato sviluppato dalla filosofa ecofemminista Carol J. Adams (cfr. in particolare The Sexual Politics of Meat. A Feminist-Vegetarian Critical Theory, Continuum 1990, trad. it. parziale in Liberazioni, n. 1, 2010).

2. Si veda il blog del progetto Resistenza Animale, http://resistenzanimale.noblogs.org. Analoghi progetti stanno sorgendo in altri paesi europei come Francia e Spagna.

3. Cfr., in particolare, Jason Hribal, Fear of the Animal Planet. The Hidden History of Animal Resistance, AK Press, 2010. Dello stesso autore è reperibile in italiano Animals, Agency, and Class: Writing the History of Animals from Below, in Liberazioni, n. 18, 2014.

4. Un’eccellente panoramica di tale dibattito è contenuta in Sarat Colling, Animals without Borders. Farmed Animal Resistance in New York, in corso di pubblicazione in Italia. Il testo propone lo studio di una serie di casi di ribellione e interpreta la resistenza animale in un’ottica femminista postcoloniale.

5. B. Piazzesi, Così perfetti e utili. Genealogia dello sfruttamento animale, Mimesis 2015. Si veda anche Stefania Cappellini e Marco Reggio, Quando i maiali fanno la rivoluzione. Proposte per un movimento antispecista non paternalista, in Liberazioni, n. 16, 2014. Altri autori hanno suggerito, indipendentemente da Maurizi, un nesso fra la svolta operaista e quella della resistenza animale. Cfr. Dinesh Wadiwel, Do Fish Resist?, trad. it. in Liberazioni, n. 26, 2016; e Fahim Amir, Zooperaismus: “Über den Tod hinaus leisteten die Schweine Widerstand…”, 2013.

6. Il che non è necessariamente un male, se seguiamo lo stesso Negri (cfr. Danilo Zolo e Antonio Negri, L’impero e la moltitudine. Un dialogo sul nuovo ordine della globalizzazione, in Reset, ottobre 2002).

7. Mi pare, in ogni caso, che la tendenza di Hardt a sottolineare una radicale inconoscibilità del soggetto non umano sia eccessiva. Le relazioni fra individui di specie diverse, dopotutto, esistono già, e si fondano su processi di comprensione inevitabilmente approssimativi e parziali, ma cionondimeno capaci di produrre relazioni e soggettività che oggi definiamo post-umane. Lo stesso problema della comunicazione politica può essere affrontato senza timori pregiudiziali, come mostra per esempio Eva Meijer (Political Communication with Animals, trad. it. in Liberazioni, n. 16, 2014).

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