A fianco di chi si ribella: la solidarietà agli animali in rivolta in un’ottica non paternalista

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A fianco di chi si ribella

La solidarietà agli animali in rivolta in un’ottica non paternalista

[fonte: liberazioni blog]

Testo presentato alla seconda edizione di Liberazione Gener-ale Verona, 24 maggio 2014.

Gli altri contributi presentati e discussi durante la giornata possono essere scaricati dal blog del Collettivo Anguane.

 

di Resistenza Animale

Nessuno ha una vita degna di considerazione di cui non si possa raccontare una storia.

Hannah Arendt

 

Il presente contributo costituisce una rielaborazione di quanto presentato durante la seconda edizione di LiberAzione Gener-ale. Si basa principalmente sull’articolo Quando i maiali fanno la rivoluzione[1], sui materiali raccolti durante l’ultimo anno dal blog http://resistenzanimale.noblogs.org/ e sulle discussioni seguite alla presentazione del 24 maggio a Verona; ulteriori fonti sono indicate nella bibliografia finale.

Dopo il caso di Camilla, la mucca evasa da un allevamento in Toscana[2] e catturata dopo un mese di latitanza, sembra che la capacità degli animali di sottrarsi allo sfruttamento umano sia una forza socialmente non trascurabile, in grado di muovere le energie di associazioni, singole persone, gruppi locali verso una solidarietà che può essere definita senza dubbio politica. Una solidarietà attiva che si esprime nella consapevolezza di condurre delle lotte comuni fra sfruttat*, indipendentemente dalla specie di appartenenza, e nel tentativo di intraprendere dei percorsi locali che possano essere coronati da successo, un successo che nel caso specifico è stato in primo luogo quello di evitare l’abbattimento di Camilla. Un piccolo risultato, non senza problemi aperti e interrogativi difficili, ma importante perché ottenuto da Camilla con il sostegno di chi ha raccolto una sua richiesta formulata in un linguaggio chiaro quanto il “nostro”: quello di un corpo che fugge, che resiste a numerosi tentativi di cattura, che si oppone come può al ristabilimento di un ordine sociale, di un assetto del territorio e delle attività che lei non ha deciso.

Da quando abbiamo pensato di raccogliere le storie di schiavi evasi dai camion che li trasportavano al macello, di animali da circo in fuga o ribellatisi al domatore, di animali “da reddito” latitanti nei boschi o – più spesso – abbattuti dopo la fuga dall’allevamento, le segnalazioni di atti di resistenza animale sono state sorprendentemente numerose. Si tratta di un fenomeno continuo, che caratterizza una società in cui lo sfruttamento animale è un pilastro dell’economia: tale sfruttamento, in effetti, non può non generare, come suo corrispettivo, un’opposizione continua e spesso disperata. Del resto, i casi che abbiamo documentato sono perlopiù quelli che sono finiti sui giornali e costituiscono dunque, verosimilmente, la punta di un iceberg. Non solo: ci è parsa (forse semplicemente per il fatto di avervi puntato la nostra attenzione) diffondersi la solidarietà ai/alle ribelli. Basti pensare, poco dopo al caso di Camilla, a quello di Ivana, una femmina di maiale evasa da un allevamento nel cremasco e sostenuta da gruppi di umani con determinazione e, soprattutto, con fiducia nella sua capacità di modificare il proprio destino[3]. O al caso dell’orsa Daniza, oggetto di un ordine di cattura da parte della provincia di Trento per non aver rispettato una visione scandalosamente antropocentrica e turistica della wilderness nel difendere i propri cuccioli nel bosco in cui viveva. In quest’ultimo caso la mobilitazione è stata imponente, e ha assunto dimensione nazionale, con petizioni, presidi, manifestazioni davanti alla sede ministeriale romana, ed altre forme di pressione sulle istituzioni. Un elemento importante, anche qui, sembra essere stato rappresentato proprio dalla latitanza di Daniza, che ha accresciuto le speranze dei/delle solidali. Del resto, qualcosa di simile era già accaduto in passato con Alexander e, all’estero, con altri animali ribelli particolarmente determinati.

Di fronte a tale fenomeno, vorremmo fare alcune riflessioni sul significato della rivolta degli animali, riflessioni che non possono non prendere in considerazione il modo in cui l’animalismo e l’antispecismo hanno finora contribuito a sottovalutarlo o, peggio, ad invisibilizzarlo. Infatti, chi si batte per i diritti animali, o per la liberazione animale, troppo spesso vive il proprio agire come puramente altruistico, mettendo al centro della narrazione, una volta di più, gli umani (gli umani “buoni”, verrebbe da dire…).

Se pensiamo a quei casi in cui la volontà di agire per se stessi, per la propria libertà, è la scintilla da cui trae origine una storia di resistenza, questo modo di pensare all’animalismo – un modo paternalista, in sintesi – tende a riportare sullo sfondo i veri soggetti, a torto considerati “senza voce”, passivi beneficiari della “buona coscienza” animalista. Al contrario, come lo sforzo di mettersi in posizione di ascolto delle istanze espresse dai soggetti non umani possa aprire nuove strade per la lotta di liberazione animale. Le domande che questo approccio ci porta a formulare sono inevitabilmente aperte: qual è la possibilità di comunicazione del dissenso fra specie diverse? quali modelli è necessario inventare per rendere possibile l’espressione del disagio di altre specie come disagio politico? come dovrebbero modificarsi alcuni concetti elaborati in ambito umano, come quello di “consenso”, di “ribellione”, di “organizzazione”, di “atto politico”, di “agency”, e così via?[4]

Resistenza e normalizzazione

Ogni volta che un animale evade da uno zoo, da un circo o da un allevamento, sembra quasi che i giornalisti, anziché dei fatti di cronaca, vengano descritti degli aneddoti. A dispetto delle parole usate, nessuno prende sul serio questi atti di ribellione: del resto, l’esito è quasi sempre fallimentare. Fanno eccezione alcuni casi relativamente noti, come Teresa, una mucca fuggita da un allevamento in provincia di Messina, che dopo aver attraversato lo stretto è stata salvata da una mobilitazione che l’ha portata in un rifugio. O come Yvonne, una mucca tedesca che dopo mesi di latitanza è stata catturata ed è stata sottratta allo sfruttamento. I casi sono però molto frequenti, ed è importante che cerchiamo di spiegare perchè di solito le evasioni sono destinate al fallimento (un dato che troppo spesso diamo per scontato).

Senza dilungarci in questa sede, possiamo elencare in modo sommario tali elementi.

Un primo strumento che impedisce ai corpi animali di ribellarsi è, evidentemente, la selezione genetica, che ha operato in favore della diffusione degli individui più docili a discapito delle razze o dei singoli maggiormente in grado di ribellarsi. Quello che gli industriali di oggi trovano in alcuni paesi in termini di debolezza della forza contrattuale della manodopera, gli allevatori l’hanno trovato nel DNA[5].

Il secondo strumento, almeno nei grandi allevamenti intensivi, è dato dal disciplinamento dei corpi, che letteralmente non trovano spazio di opposizione. La resistenza si esprime qui soprattutto come resistenza passiva, come inazione, come non collaborazione: gli schiavi si lasciano morire, si colpiscono fra loro, talvolta uccidono i propri cuccioli.

La storia di questo disciplinamento, che si intreccia con la selezione genetica, è stata descritta da Jason Hribal come una serie di risposte, sempre più efficaci, alla resistenza degli animali.

Siepi e recinzioni vennero erette per impedire la fuga degli animali. Strumenti crudeli, come i gioghi di legno e gli zoccoli, erano intesi a ridurne le possibilità di movimento. Lo sperone, le briglie e il morso, la frusta e il bull-whacker (una mazza chiodata) servivano tutti a provocare dolore. Si diffusero inoltre manuali tecnici che insegnavano l’arte di “stroncare” [breaking] la resistenza degli animali. Furono messe taglie sugli evasi. Vennero costruite gabbie per rinchiudervi quelli che venivano ripresi. I proprietari tagliavano le ali, accecavano gli animali e recidevano loro i tendini. Li castravano e li sterilizzavano. Le corna venivano tagliate. Ciascuna di queste pratiche venne perfezionata e standardizzata. E per gli individui la cui renitenza era indomabile, era prevista una misura definitiva: la pena capitale. I resistenti venivano impiccati alle forche delle città o ai rami degli alberi delle foreste circostanti. I ribelli venivano tormentati a morte durante gli spettacoli e le feste. Agli evasi e agli individui che vivevano autonomamente sul territorio si sparava a vista. Si trattava di pubbliche esecuzioni: brutali nei metodi, eloquenti nell’ostentazione della violenza, determinate a sortire un effetto preciso. La violenza della società nei confronti degli animali divenne una violenza istituzionalizzata[6].

Quando gli animali fuggono, entrano in gioco altri dispositivi il cui scopo è quello di vanificare le ribellioni. Si tratta di dispositivi che investono in modo più ampio la costruzione di una società come società umana e che mostrano il posto che ai non umani è riservato nell’organizzazione della vita e della produzione. Chi, grazie a un incidente, riesce a scappare dal camion che lo sta portando al macello, trova intorno a sé, per prima cosa, un territorio a misura d’uomo, inadatto alla sua sopravvivenza, un territorio funzionale alla sola comunità umana in ogni suo metro quadro, dalle strade asfaltate con tutte le loro barriere e le automobili lanciate ad alta velocità all’inacessibilità delle risorse primarie come le fonti di acqua e di cibo, recintate, privatizzate, cementificate. Dovrà poi fare i conti con la densità abitativa umana, talmente alta da implicare un potenziale di vigilanza e controllo capillare (pressoché assoluto) sui latitanti. Senza contare che la selezione genetica, unitamente all’abitudine alla cattività, opera anche in questo caso. Gli animali “da reddito” sono di norma meno adatti dei loro progenitori alla vita selvatica, e al di fuori delle strutture gestite dagli umani raramente sono in grado di sopravvivere: per esempio, al di fuori del recinto non troveranno libere comunità di membri della loro specie, poiché la loro specie esiste soltanto negli allevamenti; troveranno, anche fuori dalle città, un ambiente inadatto alle loro capacità motorie, cognitive ed etologiche. E se questi dispositivi non funzionano o funzionano in modo insufficiente, interviene la repressione intenzionale delle istituzioni umane, un meccanismo che si innesca a partire dalla necessità di tutelare l’incolumità pubblica nell’immediato (pericoli di incidenti stradali, danni alle colture, allarme sociale), ma che di fatto agisce ricacciando nella sfera dell’inesistenza i tentativi di evasione[7].

Non bisogna neppure sottolineare tutti quegli elementi che riguardano la narrazione della resistenza. Proprio come è importante che agli schiavi negli allevamenti sia negato il diritto alla biografia, ad avere una storia degna di essere raccontata, così diventa decisivo risignificare la tensione alla libertà. Se ne incarica il linguaggio, ed in particolare il linguaggio giornalistico, che fa delle evasioni o degli atti di insubordinazione dei veri e propri spettacoli.

Le loro fughe dal macello non erano solo fughe fisiche, ma anche concettuali, momenti di rottura della routine in un sistema di uccisione altrimenti automatizzato e normalizzato. Lo sterminio e l’elevazione a celebrità (non dissimile dal rituale della grazia presidenziale al tacchino del Giorno del Ringraziamento) sono entrambi modi per contenere la minaccia rappresentata da questi momenti di rottura concettuale[8].

Del dissenso animale si può non parlare (come generalmente accade) o parlarne come se fosse qualcos’altro: un’eccezione curiosa, uno spettacolo, una metafora di questioni più “serie”, o una patologia. Quest’ultima possibilità – la patologizzazione del dissenso – accomuna, significativamente, il modo in cui vengono depotenziate alcune forme di protesta di gruppi minoritari umani (si pensi ai “folli”, ai bambini, agli adolescenti, ecc.) e quelle di gruppi di animali[9].

Una questione di parole?

Eppure, gli animali […] resistono. La resistenza animale all’annientamento non consiste tanto, o non solo, nelle concrete ribellioni, fughe, o morti per inedia, di cui sono protagonisti alcuni degli animali a noi sottomessi. Gli animali resistono anche, o soprattutto, nella loro intatta ed insistente capacità di ispirare in noi – in una società che ci ha alienati da loro al massimo grado – interesse, sollecitudine nei loro confronti, desiderio di creare spazi di condivisione. Questi animali ci accompagnano dagli albori della nostra storia in modi e forme che non si limitano all’annullamento dell’animale in nome di una cieca “volontà di dominio” umana, ma racchiudono anche un senso di prossimità profondo nel comune essere al mondo, nel respirare, percepire, tessere legami affettivi con i propri simili; nell’essere infine consegnati ad un comune destino di caducità. Animali e umani formano insieme una comunità multispecifica.

Inoltre, a quegli umani che sono oppressi da altri umani, gli animali ispirano solidarietà sulla base di comuni esperienze di sofferenza e costrizione (nel caso delle donne, ad esempio, la riduzione del Sé al proprio corpo organico operata dalla società, la denigrazione ontologica, la manipolazione scientifica)[10].

Molte persone – anche animaliste – quando si parla degli atti di resistenza animale, tendono a riprodurre alcune dicotomie tipiche della politica umana: insurrezione / rivoluzione, spontaneismo / organizzazione, e così via. Solo la specie umana sembra poter entrare in questa dialettica, poiché le altre specie paiono essere inchiodate ad una natura immutabile in cui non c’è spazio per nulla di più di qualche moto di ribellione individuale ed estemporaneo. Come sempre, la dimensione culturale è “roba da uomini”. Non è corretto, in realtà, parlare di capacità organizzative degli “animali non umani”, mettendo in unico calderone tutte le specie diverse dalla nostra. Le caratteristiche cognitive e comportamentali variano notevolmente da specie a specie, e così le capacità di organizzazione della resistenza al dominio[11].

Ad ogni modo, non si vede perché, quando si tratta di animali, contrapposizioni come quella fra pianificazione rivoluzionaria e spontaneismo debbano essere riproposte in termini ottocenteschi, così dogmatici da risultare superati da tempo nelle pratiche di resistenza umana.

Le definizioni classiche di cosa sia la “rivoluzione”, di cosa sia un “processo rivoluzionario” o di cosa sia una “”strategia rivoluzionaria”, sono formulate in modo da escludere gli animali e in realtà anche in modo da escludere la possibilità di uno stravolgimento profondo e reale, che si affranchi dall’esigenza di tenere conto dell’insieme monolitico della società. Questo significa partire dalla resistenza animale considerata come atto politico e, al tempo stesso, lavorare per l’ampliamento dell’ambito della critica al di là delle intenzioni dei singoli ribelli.

Nel concetto stesso di “resistenza” c’è una tautologia. Dato che la resistenza viene considerata un fenomeno umano – anzi, di alcune categorie umane in alcune situazioni – viene definito in modo da implicare delle precise caratteristiche: intenzionalità, consapevolezza, consapevolezza degli obiettivi della lotta, consapevolezza di ciò che si va a colpire, individuazione di un interlocutore nel conflitto, e in molti casi perfino organizzazione collettiva e pianificazione strategica. Qualora ci si chiedesse se un atto compiuto da un animale non umano (o anche da un umano che non fa parte dei potenziali ribelli) è un atto di resistenza, mancherebbero sempre quelle caratteristiche. Siccome alcuni tipi di sfruttamento hanno un tale livello di controllo biopolitico da non lasciare spazio alla consapevolezza di ciò che sta accadendo, esistono ambiti di sfruttamento a cui per definizione non è possibile resistere (si tratta peraltro delle condizioni più dure). In sostanza, la resistenza è per definizione appannaggio di alcuni e sostenere che gli animali non possono ribellarsi diventa una mera tautologia. In quanto tautologia, riveste un interesse prettamente lessicale, ma non ha rilevanza politica: o ci si inventa un’altra parola per definire la resistenza – che pure esiste – di tutti coloro che non sono ammessi nella “resistenza”, oppure si ridefinisce la resistenza in modo meno esclusivo. La prima soluzione ha come unica utilità quella di riconfermare il nostro posto al centro del mondo.

 

Alcune proposte per superare il paternalismo

Che cosa significa prendere sul serio la resistenza animale? E che cosa significa, concretamente, per il movimento di liberazione animale lavorare insieme agli animali? Si tratta, ovviamente, di un territorio da esplorare quasi per intero, ma abbiamo fornito qualche spunto utile che sembra aver aperto delle possibilità per una prassi di solidarietà con gli animali. In primo luogo, si tratta di fare uno sforzo per superare il paternalismo che finora ha contraddistinto la gran parte del movimento antispecista. Questo paternalismo, come abbiamo visto, si è espresso soprattutto al livello della retorica: è dunque dal cambiamento del modo di esprimersi che dovremmo iniziare. Per esempio, anziché dire che “siamo la voce dei senza voce” dovremmo parlare di “far sentire la loro voce”; dovremmo fare molta attenzione anche a definire gli animali come “i più deboli”. Quando si parla dei comportamenti stereotipati ed autolesionistici dei reclusi dovremmo sottolineare l’aspetto di resistenza, di dissenso in essi contenuto. Nelle rivendicazioni ALF è importante che emerga la collaborazione da parte degli animali, quando è presente. Di più: alcuni atti di ribellione senza il concorso umano dovrebbero comparire fra le azioni ALF, poiché ne rispettano le linee guida (nota: le linee guida che definiscono un’azione come riconducibile all’Animal Liberation Front non specificano se il liberatore debba appartenere alla specie umana o meno, né se il soggetto e l’“oggetto” della liberazione siano due persone diverse). Un diverso modo di esprimersi dovrebbe quindi portarci a superare quell’atteggiamento per cui chi conduce la lotta animalista si sente moralmente superiore a chi si interessa di altre lotte e altri soggetti, secondo il luogo comune che fa della prima una lotta completamente altruistica, e di tutte le altre delle lotte “interessate”, poiché chi le conduce lo farebbe per se stesso, mentre noi lo facciamo soltanto per loro. Un linguaggio non paternalista potrebbe inoltre facilitare il riconoscimento delle intersezioni fra le diverse lotte, aiutandoci a comprendere più profondamente la nostra animalità e ad evidenziare forme di solidarietà basate sul riconoscimento di una comune oppressione. Un esempio utile può essere quello propostoda Barbara X[12], circa la possibilità per una donna transgender di riconoscere la sofferenza e la ribellione degli animali da macello a partire dalla propria condizione: la capacità di mettere in discussione con il proprio corpo e con le proprie pratiche di vita i ruoli imposti alle donne transgender (sex workers o impiegate nello spettacolo) può permettere di capire il profondo significato politico della fuga dal recinto di un allevamento che è anche fuga dall’unico ruolo che noi umani immaginiamo per le mucche o i maiali (diventare cibo).Il paternalismo è però anche un’incapacità di cogliere i messaggi che arrivano dagli schiavi e, al tempo stesso, il proposito di mantenere saldamente in mano il pallino dell’agenda politica da parte degli umani. Dal primo dei due aspetti derivano forse anche alcuni aspetti deleteri della zoofilia e del protezionismo: è perché non li si è voluti ascoltare realmente che si è potuto dire, come ha fatto Michela Vittoria Brambilla, che ogni cane ha diritto ad un divano. Il fatto che un movimento a prevalenza femminile esprima una visione paternalistica è piuttosto interessante. La mobilitazione femminile si può interpretare almeno in due modi. Uno fa riferimento alla visione che vuole le donne martiri, dotate di altruismo e spirito di sacrificio quasi innati, tutti caratteri che si esprimerebbero in una marcata sensibilità ed emotività, in una tendenza all’ascolto empatico, in una particolare attenzione ai più deboli ed alla loro sofferenza. Un altro fa invece riferimento alla capacità di immedesimarsi nella condizione di oggetti di sfruttamento vissuta dagli animali, a partire dalla propria condizione di subalternità. Si tratta di due spiegazioni molto diverse, ma sembra che sia all’interno del movimento animalista che fra i suoi detrattori prevalga la prima. Se ci chiediamo il perchè, un’ipotesi da approfondire potrebbe essere la seguente: la prima visione si impone perchè la narrazione dominante è connotata in senso maschile, indipendentemente da chi la elabora. Interpretare la mobilitazione femminile come intrinsecamente altruistica sostiene proprio una visione paternalistica: agli animali ci si dedica perché si è votati all’amore disinteressato. Interpretarla invece nel secondo modo contrasta apertamente un paternalismo che ha cause più lontane: le difficoltà di comunicazione fra la specie umana ed altre specie; la volontà degli umani di mantenere una posizione di privilegio rispetto agli animali anche all’interno di una lotta in loro favore; le condizioni di controllo biopolitico degli animali che come abbiamo visto ne rendono difficile la ribellione.

Non si tratta, però, di limitarsi a modificare la retorica che accompagna le importanti attività già messe in campo da associazioni e singoli.

Si tratta anche di costruire una narrazione, un osservatorio sulle vite ribelli, uno strumento per rendere evidente che gli animali sono soggetti attivi e che gli atti di rivolta sono molto più frequenti di quanto si pensi. Un osservatorio permanente permette di dare ad ognuna di queste azioni il significato che merita e di lasciar esprimere gli animali riguardo a se stessi.

Questo osservatorio, da quando abbiamo elaborato alcune proposte preliminari, esiste in forma di blog. Questo non significa, però, che tale opera di documentazione debba egemonizzare il discorso sulla resistenza degli animali: proprio perchè si tratta di un discorso tutto da elaborare, da esplorare, da lasciar esprimere, è auspicabile che si diffondano spazi di commento, di visibilità e di rielaborazione delle storie di chi ogni giorno resiste allo sfruttamento. E, in effetti, è quanto sta avvenendo.

È poi fondamentale che gli umani che intendono raccogliere la richiesta di alleanza dei membri di altre specie possano mobilitarsi a più livelli, sulla spinta delle azioni degli animali.

Può dunque essere necessario che si costruisca una vera e propria rete di sostegno per dare asilo politico agli evasi, cosa di cui si è sentita più che mai la necessità durante le mobilitazioni di questa estate per Camilla, Ivana e Daniza. La costituzione di una rete di sostegno mira a creare piccole sacche di possibilità per il successo delle evasioni. Si tratta quindi di erodere l’efficacia dei dispositivi sopra descritti, che di norma impediscono agli animali di scampare alla morte e di rendere visibile la loro volontà di ribellione.

In generale, poi, sta iniziando a costruirsi un ambito di mobilitazione per la solidarietà verso il singolo. Quando abbiamo espresso, mesi fa, la necessità di costruirlo, non era chiaro come ciò sarebbe potuto accadere. Ora possiamo dire che la spinta più importante viene proprio dai ribelli, se proviamo a prenderne sul serio gli atti.

Come è avvenuto in alcuni casi (in particolare, in Italia, quello di Alexander), la solidarietà diffusa può e spesso deve tradursi nell’articolazione di rivendicazioni politiche più generali, che facciano quindi uscire le mobilitazioni dallo scopo immediato di favorire il buon esito di un’evasione o di una ribellione.


NOTE

[1]      Stefania Cappellini, Marco Reggio, “Quando i maiali fanno la rivoluzione. Proposte per un movimento antispecista non paternalista”, in Liberazioni, IV, 16, 2014, pp- 43-61 (consultabile on line http://www.liberazioni.org/articoli/CappelliniReggio-Lib16.pdf).

[2]      http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2014/07/20/muccavinci/; http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2014/08/23/camilla-non-e-piu-latitante-liberta-per-camilla/; http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2014/07/22/asilo-politico-per-camilla-appello/.

[3]      Ivana è stata sostenuta dall’associazione Vitadacani, che ha diffuso un appello a solidarizzare con lei chiedendone la cessione ad un rifugio (http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2014/07/27/evade-da-un-allevamento-nel-cremasco/).

[4]      Oltre ai testi citati nel seguito dell’articolo, si rimanda alla pagina dei materiali del blog Resistenza Animale, http://resistenzanimale.noblogs.org/materiali/, e in particolare: Melanie Bujok, La resistenza contro lo sfruttamento animale, in Massimo Filippi e Filippo Trasatti (a cura di), Nell’Albergo di Adamo. Gli animali, la “questione animale” e la filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 239-261; Matthew Calarco, Di fronte al volto animale, in Massimo Filippi e Filippo Trasatti (a cura di), Nell’Albergo di Adamo, cit., pp. 105-128; Massimo Filippi, Filippo Trasatti, Toc toc, in Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Elèuthera, Milano 2013; Jason C. Hribal, Animals are part of the working class, 2003 (versione rivista: 2012); Jason C. Hribal, “Animal, agency and class”, 2007, trad. it. in Liberazioni, 18, 2014; Eva Meijer, “Political conversation with animals”, trad. it. in Liberazioni IV, 16, 2014; Serena Contardi, Madre Coraggio, (http://delmangiarfiori.wordpress.com/2012/09/17/madre-coraggio/).

[5]      Un capitolo a parte meritano in tal senso, circhi e zoo. Rimandiamo al citato articolo Quando i maiali fanno la rivoluzione.

[6]      Jason C. Hribal, Animals, agency, and class, op. cit.

[7]      Alcuni dei casi che abbiamo discusso in modo più dettagliato sono quelli di Patience, elefantessa che ha ucciso il suo carceriere (http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2013/12/04/elefantessa-uccide-il-suo-carceriere/); di Tyke, elefante del circo di Honolulu ucciso per essersi più volte ribellato e divenuto un simbolo della lotta contro i circhi con animali (http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2013/11/25/tyke-elefante-ribelle/); di Tatiana, tigre ribelle uccisa dalla polizia di San Francisco e divenuta anch’essa simbolo per le lotte animaliste; di Alexander, cucciolo di giraffa ucciso ad Imola nel 2012; la mucca evasa e uccisa nell’aprile del 2014 nel pinerolese da un cacciatore ufficialmente investito della carica di “autorità giudiziaria” (http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2014/04/12/per-ragioni-di-pubblica-incolumita/).

[8]      http://neuroneproteso.wordpress.com/2012/03/10/lavorando-in-incognito-in-un-macello-un-intervista-con-timothy-pachirat/.

[9]      Un caso molto interessante, in cui viene utilizzato un linguaggio quasi psichiatrico che intreccia la normalizzazione della devianza adolescenziale e quella della ribellione animale, è quello degli elefanti ugandesi (http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2014/03/13/in-uganda-gli-elefanti-bloccano-le-strade/), commentato in dettaglio per ControRadio nella trasmissione “Restiamo Animali” (http://www.controradiolive.info/podcastgen/?p=episode&name=2014-04-11_restiamo_animali_del_6_aprile_2014.mp3).

[10]    Agnese Pignataro, Chi sono le donne? Chi sono gli animali? Economie dei corpi e politiche degli affetti (http://www.inventati.org/femblogcamp/archive/2011/abstract.html).

[11]    Si veda per esempio il caso della fuga pianificata da un gruppo di panda in uno zoo: http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2013/10/31/i-panda-che-pianificano-la-fuga/. O, soprattutto, la vicenda dei gorilla che hanno imparato a distruggere le trappole di bracconieri collaborando fra loro: http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2013/12/17/i-gorilla-distruggono-le-trappole-dei-bracconieri/.

[12]    Barbara X, Fuga per la sconfitta, maggio 2011, http://www.antispecismo.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=89:fugaperlasconfitta.

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